Teresa MEZZA, Dottoranda di ricerca Università Cattolica del Sacro Cuore, ha frequentato la Facoltà di Medicina e Chirurgia.
Ha ottenuto il riconoscimento Future Leaders Mentorship Programme for Clinical Diabetologists della European Foundation for the Study of Diabetes (EFSD) e ha vinto uno dei sei prestigiosi Rising Star Fellowship Programme. Teresa è intervenuta lo scorso 19 aprile al Convegno per la Giornata per l’Università Cattolica. Per l’occasione le abbiamo chiesto:
Che cosa significa essere erede e che cosa innovatore? E nel lavoro?
Un erede che vuole essere tale deve per forza esser anche innovatore. Mi spiego meglio: essere “erede” significa conservare ma soprattutto arricchire e sviluppare quanto ci viene tramandato in termini di conoscenze, valori e modelli di pensiero. E arricchire e sviluppare qualcosa significa sopratutto saperlo rendere attuale, in una società in cui dobbiamo continuamente misurarci in un contesto di cambiamenti radicali e istantanei. Nel lavoro essere eredi vuole dire proprio questo: essere in grado di diffondere in maniera, sempre più attuale, gli strumenti di pensiero e riflessione che l’ Università Cattolica ci fornisce da studenti e che le esperienze di vita hanno arricchito e amplificato.
Come si raggiungono i risultati che lei ha già conquistato? Quali sono gli ingredienti immancabili?
Alla base di un grande risultato c’è anzitutto semplicemente la convinzione o meglio la volontà e l’ambizione di volerlo raggiungere, applicandosi con le proprie conoscenze, nel mio campo, ad esempio, a far in modo di generare un impatto positivo per la collettività. Il secondo ingrediente, imprenscindibile, è il modello di pensiero e la competenza tecnica capace di disegnare il percorso di raggiungimento dell’obiettivo: e qui sta il valore di un’ Università come la Cattolica che mi ha dotato di strumenti fondamentali che mi hanno consentito di fare la differenza, nella mia attività di medico e ricercatrice, in campo internazionale.
Come gli studi universitari stanno favorendo la sua ricerca scientifica?
Oltre a strumenti e conoscenze tecniche, i miei studi universitari mi hanno soprattutto favorita nel modello di pensiero e nell’ approccio alla risoluzione dei problemi perché nella ricerca scientifica ce ne sono tanti. In secondo luogo, mi favoriscono nelle opportunità di potermi interfacciare con docenti e ricercatori di primo piano nazionale e internazionale, opportunità che stimolano e permettono di intraprendere diversi percorsi di crescita internazionali. In questo senso sta il concreto valore dei miei studi Universitari in Cattolica.
Che cosa suggerirebbe a un giovane laureando e a una giovane matricola?
A un giovane laureato suggerirei di concentrare le proprie energie in quello che è la sua passione vera, che accende la nostra fantasia e curiosità. Di non vivere la laurea come la fine di un percorso, ma come l’inizio della vera sfida in cui si è chiamati a vivere continuamente ansia di concorsi e ricerca di stabilità professionale e l’interesse perpetuo della gratificazione professione e intellettuale, che ci rende vivi e attivi e che si ottiene solo se riusciamo a fare quello che ci piace. A chi comincia oggi il proprio percorso di studi, suggerirei di non scoraggiarsi al primo esame non riuscito o al primo periodo buio, anzi è proprio dagli obiettivi non raggiunti che possiamo costruire la determinazione con cui fare il salto verso obiettivi più ambiziosi. La grinta e la determinazione che sono ingredienti fondamentali per costruire un percorso formativo e di vita che sia unico, vero e completo.
L’estero o l’Italia: che cosa c’è all’orizzonte?
Entrambi. Non sono convinta che andare fuori sia la soluzione ovvero non credo che il nostro Paese non abbia potenzialità e sia un paese da lasciare anche se hai ambizioni scientifiche e di ricerca che talvolta non trovano la giusta direzione. La mia stessa posizione non è semplice e sono consapevole, come altri miei colleghi, delle difficoltà che magari all’estero potremmo non incontrare. Al contempo, però, credo nell’Italia, nell’Università Cattolica dove ho studiato e mi sono laureata e nel Policlinico Gemelli dove oggi lavoro. Ma penso non si possa rinunciare all’apertura internazionale, ovvero considerare di passare periodi anche brevi o mediamente lunghi fuori dal nostro Paese perché questo ci arricchisce e ci consente di apprendere nuovi modelli e strumenti e soprattutto ci consente di vedere in che modo noi ricercatori italiani possiamo fare la differenza, anche giocando in casa. Mi permetto di fare un piccolo excursus: quando mi trovavo negli Stati Uniti – presso il Joslin Diabetes Center (Harvard Medical School) – mi sono resa conto di come di fronte a un dato problema scientifico, molti miei colleghi di diverse nazionalità rimanevano concentrati sul problema studiandolo in maniera approfondita sotto diversi punti di vista. Noi italiani invece, spontaneamente, avevamo la capacità di aggiungere nuove variabili, inventare nuove teorie, anche per pura intuizione e con questo approccio più aperto e creativo riuscivamo a fare la differenza. Mi piace lavorare in contesti internazionali ma credo che il nostro sia un gran bel Paese da diversi punti di vista.