Annalisa è intervenuta lo scorso 19 aprile al Convegno per la Giornata per l’Università Cattolica. Ha 28 anni, di Pavia, e ha vinto la seconda edizione del Fellowship Program UNOG dell’Istituto Giuseppe Toniolo. In particolare, ha svolto uno stage negli uffici ginevrini della Missione Permanente della Santa Sede, presso le Nazioni Unite. Da gennaio 2016 lavora alla IOM, dove si occupa del progetto “Migration Governance Indicators” (MGI). Lo scopo del progetto è sostenere gli Stati che valutano uno stato e l’esaustività della loro politica migratoria attraverso una serie di indicatori.
Che cosa significa essere erede e che cosa innovatore? E nel lavoro?
Mi piace questa parola “erede” perché la collego al concetto del “tesoro” che si riceve gratuitamente, senza “esserselo meritato”, è un dono.
Per me essere erede è fare memoria del fatto che non siamo soli, nel senso che non ci siamo fatti da noi dal nulla, che prendiamo in consegna quanto fatto da altri sino qui e che dobbiamo quello che abbiamo ad altri, che per noi hanno costruito. È un sano atto di realismo e di umiltà che nel lavoro ci permette di continuare ad imparare dagli altri e soprattutto da chi ha più esperienza, sempre senza sentirci arrivati. Io, in questo senso, mi sento una ricca ereditiera, erede di molti perchè non costruisco dal nulla, ma ho ricevuto molto e ho delle fondamenta più grandi di me. L’innovazione, invece, se guardo alla mia esperienza, nasce sempre dall’osservazione della realtà, non vive nell’iperuranio nella mente del signolo genio, ma è legata alle necessità e al desiderio di trovare risposte ai bisogni di cui la realtà ci parla ora. Inoltre, una volta che l’idea innovativa viene concepita, occorre che sia sviluppata e portata avanti perché diventi qualcosa di reale e questo non risiede nelle capacità di un singolo, è una cosa che si fa “insieme”. Nel mio lavoro questo è evidente, si può lavorare con lo scopo di emergere a tutti i costi o si può lavorare per costruire qualcosa di nuovo e utile di cui magari non si raccoglieranno direttamente i frutti ma che può far fare un piccolo passo in avanti per tutti.
In questo senso penso che oggi, in un mondo cosi individualista e dove la carriera e la ricerca del successo del singolo sembrano essere l’unico motore del lavoro, per me essere innovatore coincide con l’essere erede, con il ripartire non da un “io” esasperato ma da un “noi”, da un senso del sociale e del bene comune che supera gli egoismi e l’interesse del singolo.
Che cosa ha potuto imparare nella sua prima esperienza ginevrina?
Sono arrivata a Gineva tramite il progamma “Fellowship UNOG” dell’Istututo Toniolo nel 2015 per un’esperienza presso la Missione Permanente della Santa Sede alle Nazioni Unite. Sono stati 11 mesi intensi e fondamentali che mi hanno permesso di vedere da vicino il mondo della diplomazia e delle organizzazioni internazionali e poter finalmente capire sul campo, al di fuori dei libri, la realtà di questo lavoro. In quesi mesi, lavorando accanto a professionisti capaci e umanamente attenti, ho iniziato a mettere a fuoco meglio cosa mi sarebbe piaciuto fare nella vita e quale potesse essere il mio posto. È stato proprio tramite questa esperienza e l’incontro con queste persone che è maturato in me l’interesse per le migrazioni, non come oggetto di disputa politica quale è oggi, ma come fenomeno umano.
Come gli studi universitari la stanno sostenendo nel far fronte alla grande problematica delle migrazioni, che oggi la vede in prima linea?
L’università mi ha aperto la testa, mi ha preparata a guardare in modo critico a fenomeni complessi quali quello migratorio senza la fretta di emettere sentenze. Mi ha insegnato che le cose che riguardano l’umano non sono “problemi da risolvere”, ma realtà innanzitutto da capire e da affrontare, legandole al contesto specifico.
In particolare all’ Università ho studiato per cinque anni lingua e cultura araba con dei professori davvero eccezionali e che hanno acceso in me un interesse genuino ed entusiasta per ciò che è “altro” da me, lungi dal qualunquismo che appiattisce tutto e dice che in fondo siamo tutti uguali. Certo, abbiamo tutti gli stessi diritti, ma, grazie al cielo, siamo diversi, “io sono io e tu sei tu”. Questo è una sfida e una ricchezza allo stesso tempo.
Può sembrare una constatazione banale questa (“io sono io e tu sei tu”) ma è un punto cruciale se si pensa ai migranti. Dal mio punto di vista è sbagliato dire che non c’è differenza o che “non ci sono problemi” con i migranti tanto quanto dire che i migranti sono il male. Scartare una delle facce della medaglia, la sfida – e quindi la fatica -, o la ricchezza – e quindi la positività di questa realtà -, è un di meno che non aiuta a risolvere la questione ma fornisce solo una scusa per chi vuole lavarsene le mani in un senso o in un altro.
Ci tengo anche a dire che sono molto grata all’Università Cattolica perchè mi ha sempre sostenuta nelle mie scelte, dandomi la possibilità – grazie alle borse di studio – di fare esperienze all’estero e di studiare in altre università prestigiose come Stanford o di trovare stage che mi portassero dove sognavo di andare, come il programma “Design your career” e la Fellowship UNOG dell’Istituto Toniolo. Mi sento di poter dire che qui si investe veramente nei giovani, dando loro strumenti concreti per diventare protagonisti del loro futuro.
Che cosa suggerirebbe a un giovane laureando e a una giovane matricola?
Vorrei dirgli di non avere paura. Non avere paura di rischiare e non avere paura di fallire.
Il mio curriculum vitae sarebbe lungo il triplo se vi inserissi tutte le borse di studio per cui ho fatto domanda senza poi vincere, i posti di lavoro per cui ho fatto il colloquio senza che la posizione fosse assegnata a me, le decine di application e di email con il mio cv mandate a cui non ho ricevuto alcuna risposta. È successo e continuerà a succedere. E va bene cosi, è cosi per tutti, non sei tu che sei sbagliato è solo che quella, ora, non è la tua strada. Non perdere tempo a lementarti o a compiangerti. Predi atto della realtà e ricomincia a guardare a te stesso con tenerezza e fiducia, non svalutarti. Se ripenso alla mia strada, le cose in cui non sono riuscita hanno contribuito non meno di quelle in cui sono riuscita a farmi arrivare fino a qui e sono sicura che mi indicheranno la via da seguire anche in futuro.
Tornerebbe in Italia?
Per chi sceglie una facoltà come Relazioni Internazionali è implicita una scelta circa l’orientamento internazionale della propria carriera. Mentre forse per altre facoltà o mestieri l’idea dell’estero nasce grazie a delle opportunità che si creano o per necessità, per chi desidera fare questo lavoro è una scelta praticamente implicita quando ci si iscrive all’università (lo è naturalmente in maniera più o meno cosciente).
Il lavoro,però,serve alla vita e non la vita per il lavoro, e ci sono molte altre considerazioni per cui potrei decidere di tornare in Italia: sicuramente perché sono italiana e del mio Paese amo un po’ tutto (pregi e difetti) e ho il desiderio di poter dare prima o poi un contributo concreto al suo miglioramento, e, soprattutto, perché non sono sola, sono sposata con Mattia, e ancora non sappiamo dove il nostro desiderio di stare insieme ci porterà.