Abbiamo intervistato Walter Passerini, giornalista, docente di Linguaggi giornalistici e Sistema dei media all’Università Cattolica di Milano-Scuola di Giornalismo, grande esperto delle tematiche del lavoro e co-autore del libro “La guerra del lavoro” ” (editore Rizzoli, pagine 414, euro 13), uscito da pochi giorni in libreria. A lui abbiamo chiesto come sta cambiando il mondo del lavoro, specialmente per quanto riguarda la fascia di popolazione più dinamica ma allo stesso tempo più colpita dalla crisi: i giovani.

 

Professor Passerini, gli scenari sull’occupazione giovanile in Italia sono particolarmente preoccupanti. Come si può uscire da questo tunnel secondo lei?

C’è un clima depressivo che va fermato, che viene spesso alimentato dai media. La situazione occupazionale dei giovani è grave, ma non è un mantra impotente: bisogna passare dalle diagnosi alle proposte. Ci sono tre questioni su cui lavorare: la prima è quella di una riflessione sull’offerta formativa che deve adeguarsi ai mutamenti della realtà (appare critica la transizione dalla secondaria superiore all’università, che rivela troppa dispersione e disorientamento dei giovani e delle famiglie; appare anche matura una nuova offerta formativa post-diploma di tipo terziario professionalizzante); la seconda riguarda il mercato del lavoro, che nelle forme attuali penalizza i giovani con contratti flessibili che, in assenza di adeguati servizi all’impiego, si trasformano in una condanna alla precarietà; la terza riguarda le culture del lavoro dominanti, che da un lato hanno ridotto il valore del lavoro, dall’altro sono prigioniere di una visione che immagina il lavoro esclusivamente come lavoro dipendente. E’ necessario pensare al futuro del lavoro, invece, come lavoro “indipendente” e “intraprendente” e non solo “dipendente”.

 

Nel suo libro ha citato i dati del Rapporto Giovani: cosa l’ha colpita in particolare della ricerca in questione?

Intanto l’ampiezza e la rigorosità della ricerca, che correttamente è sempre in movimento, non fotografa ma filma e aggiorna. Sui risultati, ho apprezzato la maturità, una disillusione pragmatica e aperta dei giovani e la permanenza della speranza verso il futuro. Sui valori del lavoro emersi, se è vero che è ancora forte il peso della cultura strumentale (“il lavoro è uno strumento diretto a procurare reddito”), mi consolano e mi stimolano le visioni che assegnano al lavoro una funzione di “forte impegno sociale”, una “modalità per affrontare il futuro” e una “modalità di autorealizzazione”. Spero nella crescita dei modelli espressivi e solidali.

 

I Neet sono un fenomeno sempre più rilevante ma su cui occorre compiere analisi più approfondite. Lei come vede la realtà dei giovani che non studiano né lavorano?

E’ il frutto della mancanza e dell’inadeguatezza delle politiche e delle culture dell’orientamento, il segno della rassegnazione e del fallimento delle politiche formative, la scarsa lungimiranza delle politiche del lavoro. Se i Neet under 29 sono stimati in 2,3 milioni in Italia, mi preoccupa l’inerzia dei decisori politici, economici e formativi e l’abulìa della società, che tende a rimuovere il problema. Più che di stanchi e inefficaci interventi, avremmo bisogno di terapie d’urto e programmi di emergenza. Primo tra tutti la costruzione di una rete di servizi all’impiego, pubblici e privati, degna di questo nome, che verrà presto messa alla prova dall’avvio della cosiddetta Garanzia giovani, il programma europeo per ridurre la disoccupazione del Neet e degli under 29.

 

In parlamento si sta discutendo molto del Job Act, la riforma del lavoro voluta dal premier Renzi. Quali effetti potrà avere sull’occupazione, specialmente quella giovanile?

La priorità è il lavoro, che non arriva per il magico incontro automatico della domanda e dell’offerta. Bisogna puntare sulla crescita e sulla creazione di lavoro, termini che fanno sorridere alcuni benpensanti, che pensano che il lavoro cada dal cielo. La forza del Job act sta nella velocità e nell’integrazione di tre obiettivi: la razionalizzazione delle formule contrattuali; l’individuazione di alcuni settori prioritari di sviluppo su cui puntare; la semplificazione del fare impresa e la sburocratizzazione del sistema pubblico, che ha un ruolo decisivo sulle politiche di welfare, sugli ammortizzatori sociali e sulla creazione di servizi efficaci. Il diritto al lavoro del futuro è il diritto ai servizi per il lavoro.

 

Nel suo libro parla di proletarizzazione dei professionisti. Come è avvenuto questo cambiamento? E che modalità avrà nei prossimi anni?

La tendenza all’appiattimento è generale. Il sistema delle professioni sta subendo una rivoluzione e non riesce ancora a gestirla. Ci sono ancora troppe sacche di resistenza nelle cosiddette professioni ordinistiche, nascono nuove professioni che non hanno alcuna identità. La polverizzazione e la proletarizzazione dei giovani professionisti è la conseguenza di questi processi. E’ finito il tempo in cui diventare avvocato, dottore commercialista e per certi versi anche notaio garantiva il futuro. Ci sono giovani avvocati, dottori commercialisti e consulenti del lavoro che hanno redditi inferiori ai 10mila euro all’anno. E’ la conferma dell’esistenza dei “working poors”: si può essere poveri pur avendo un lavoro; si può essere poveri avendo studiato ed essendo dei professionisti. La difesa delle professioni non può più essere fatta in chiave conservativa, ma aprendosi al mondo e alle nuove opportunità.

 

Prendendo spunto dal titolo del suo libro, il mondo del lavoro è davvero diventato un campo di battaglia? Ci può spiegare meglio questa definizione?

Più che una battaglia è la prossima e già cominciata “Guerra dei trent’anni”, che sarà una guerra per il lavoro. A due livelli: il primo è la dimensione della globalizzazione, che vede emergere nuovi commensali, che creano movimenti, conflitti e flussi destinati a destabilizzare i rapporti internazionali esistenti (vedi i Brics, i Mint, i Next e così via); il secondo è all’interno dei singoli paesi, nei quali si sviluppano diverse guerre ai diversi livelli: dipendenti contro autonomi, precari contro professionisti, giovani contro adulti, disoccupati contro occupati, e così via. Ogni guerra crea vittime, è uno scontro tra vincitori e vinti. La “Guerra del lavoro” non è pacifica e non ammette diserzioni: tutti ne sono coinvolti, nessuno è al sicuro. Qualcuno sostiene che il lavoro è e sarà sempre più scarso. E’ un’affermazione discutibile ed eurocentrica. Nel mondo il lavoro regolare sta crescendo, anche se permangono il “dumping sociale” e il “dumping dei diritti”. Ci vuole una nuova regìa nel mondo tra paesi ricchi e paesi poveri e all’interno dei paesi più maturi, e per ora fortunati, è necessaria una nuova classe dirigente. Serve una nuova leadership, il cui obiettivo morale, prima ancora che economico, sia quello della creazione di lavoro, di occupazione, di ricchezza, per offrire pari dignità e pari opportunità a tutti, soprattutto ai più deboli.