Le nuove generazioni usano in modo diffuso la rete e i social network, li considerano come parte integrante della propria realtà e vita sociale. Il web è considerato un mezzo imprescindibile per acquisire informazioni e i social uno strumento utile per scambiare opinioni, confrontarsi, allargare conoscenze, raccontare di sé.
Questa presenza pervasiva della rete per i Millennials, la prima generazione socializzata in connessione continua dal basso con il mondo, non significa, tuttavia, che il loro sia un uso incondizionato e acritico. La grande maggioranza è a conoscenza di insidie e di rischi anche se non sempre è pienamente consapevole della loro portata e delle implicazioni. Diventa, quindi, un’esperienza comune essere vittima o spettatore passivo o complice più o meno involontario di situazioni spiacevoli e di pratiche corrosive. Accade spesso, in particolare, di imbattersi in diffusione di notizie false (“bufale”), in contenuti offensivi e discriminatori (“hate speech”), in provocazioni gratuite e accuse infondate (“trolling”). La grande maggioranza delle persone ritiene che queste pratiche rendano i social più inaffidabili e un luogo meno ospitale. Manca, però, una condotta guida di comportamento che aiuti a non favorirne la diffusione e a disinnescare gli effetti.
«Ognuno si regola in base alla propria sensibilità sia nel valutare l’affidabilità delle notizie da condividere sia nel lasciar cadere o nelle modalità di replica a provocazioni e insulti. Molti sono quelli che dopo essere stati “scottati” hanno deciso di limitare la presenza quantitativa e qualitativa in rete, diventando più cauti ma perdendo anche fiducia nelle possibilità di espressione e condivisione nei social – ha detto Alessandro Rosina, docente di Demografia e Statistica Sociale all’Università Cattolica e curatore dell’indagine – La dimensione e l’interesse pubblico acquisito da questo tema suggerisce non solo la necessità di ulteriori analisi, quantitative e qualitative, ma anche lo sviluppo di codici di comportamento, strumenti e strategie di azione che aiutino a contenere gli effetti corrosivi negativi che pratiche di questo tipo possono produrre».
L’INDAGINE
Indagine di approfondimento dell’ “Osservatorio Giovani” dell’Istituto Giuseppe Toniolo su “Diffusione, uso, insidie dei social network”, condotta a gennaio 2017 su un campione di 2182 persone, rappresentativo dei giovani italiani di età 20-34 anni.
I dati costituiscono un’anticipazione dell’ approfondimento che l’Osservatorio Giovani (www.rapportogiovani.it) ha realizzato in occasione di “Parole O_Stili”, un evento contro la violenza nelle parole che si tine a Trieste il 17 e 18 febbraio.
I RISULTATI PRINCIPALI
La quasi totalità dei giovani tra i 20 e i 34 anni usa la rete, la grande maggioranza è presente sui social network. Tra questi, il 90,3 per cento ha un account su Facebook, segue Instagram con 56,6 per cento, Google+ con 53,9 per cento, Twitter 39,9 per cento. Rilevante è anche la presenza su LinkedIn, più orientato a profili professionali, che arriva al 22,4 per cento. Gli utenti di Pinterest arrivano al 20,4 e su Snapchat al 16,1 per cento (che sale al 27,4 per cento nella fascia più giovane del campione, gli under 22). Più di nicchia gli altri.
Gli utenti di Facebook risultano anche i più assidui, presenti quotidianamente in oltre il 90 per cento dei casi (93%), seguiti da Instagram (74%) e Snapchat (56,9%).Lo strumento privilegiato per connettersi è lo smartphone (72,7%).
Rispetto alle attività svolte nell’ultima settimana, quelle più comuni sono leggere post di amici/follower (fatta “spesso” dal 74,1% degli intervistati), leggere news (63,2%), conversare privatamente tramite messenger (57,8%). Attività che comportano inserimento di contenuti sono meno frequenti ma coinvolgono una larga parte del campione: commentare post di propri contatti (49, 1%), postare materiale sulla propria pagina (40,7%), condividere news (35,4%), postare proprie foto o video su pagine altrui (32,6%). Di rilievo anche le voci “Leggere/cercare annunci di lavoro” (28,3%) e “Visitare account di personaggi pubblici” (26,6%), commentare una news su una pagina di media ufficiali (23,5%).
Nel complesso, la presenza attiva sui social dei giovani appare ampia, con intensa interazione e condivisione di materiali, news e opinioni.
Allo stesso tempo emerge la consapevolezza dei rischi. Alto è infatti il consenso sul fatto che non vanno presi troppo sul serio perché i contenuti che vi si pubblicano possono essere tanto veri quanto “inventati” (86,6%).
LE INSIDIE DEI SOCIAL: I TROLLS
Passando alle trappole e insidie nell’uso dei social, è interessante valutare esperienze di “trolling”, atteggiamenti verso i “troll” (persone che intralciano il normale svolgimento di una discussione inviando messaggi provocatori, irritanti, falsi o fuori tema con lo scopo di disturbare, provocare reazioni forti negli altri agendo sia sui profili di comuni utenti, che di personaggi pubblici o sulle pagine di aziende e brand conosciuti).
Il 37,7% degli intervistati ne ha avuto esperienza indiretta assistendo ad episodi di trolling sui propri contatti. L’esperienza diretta è dichiarata dal 13% degli intervistati. Il 9,3% del campione dichiara di esserne stato anche responsabile. Il fenomeno riguarda, quindi, una minoranza non trascurabile di chi è presente sui social, con maggior esposizione di chi è più attivo sui contenuti.
Come reagiscono le vittime? Le risposte più frequenti sono due, che riflettono sia le situazioni diverse che si possono presentare, sia le caratteristiche della persona, sia cosa si è imparato dalle esperienze simili precedenti. Nel 60,8% dei casi la vittima ha rimosso il messaggio e autonomamente bloccato l’utente senza mettersi a replicare alla provocazione. In una percentuale rilevante (51,2%) si è provato a rispondere al messaggio sul proprio profilo in modo educato. Il 49,4% delle vittime ha, però, anche dichiarato che in alcune occasioni ha usato lo stesso tono aggressivo. Un ventaglio variegato, che dipende da molti fattori ma che indica anche come ci si senta in difficoltà nella strategia di reazione. Un non trascurabile 31,6% delle vittime, non riuscendo a liberarsi dal troll, alla fine si è rivolto ad un legale.
Il 71,8% di tutti gli intervistati, concorda nel ritenere che i troll e comportamenti aggressivi di questo tipo rendano i Social un ambiente altamente inaffidabile. Questo vuol dire però anche che c’è un 28,2% che concorda poco o per nulla con tale affermazione e tende quindi a sottovalutare l’impatto o a considerare il trolling come un aspetto imprescindibile della rete. Il 34,8% degli intervistati concorda con l’idea che i troll agiscano in nome del diritto di libertà di espressione della rete.
«La difficoltà ad affrontare il fenomeno – afferma Alessandro Rosina, coordinatore dell’indagine – in combinazione con l’idea che il web debba essere un luogo in cui esprimersi liberamente, porta molti ad accettare, pur senza necessariamente giustificare, alcuni comportamenti che minano la fiducia comune e la possibilità di relazione autentica in rete.
Un aspetto ambiguo di queste esperienze negative – prosegue Rosina – è che una parte di chi le subisce aumenta sensibilità e grado di attenzione, chiedendo maggiori strumenti per difendersi, mentre una parte minoritaria, ma non trascurabile, le accetta come “parte del gioco” e rischia di prestarsi più o meno inconsapevolmente a diventare complice della loro presenza endemica e diffusione».
L’HATE SPEECH
Un ulteriore tema problematico del web, sul quale è cresciuta molto l’attenzione pubblica, è l’ “hate speech” ovvero l’abuso di termini offensivi e l’espressione di odio e intolleranza verso persone o categorie sociali.
Anche su questo tema la consapevolezza è elevata. L’ hate speech è considerato molto grave dal 44,4% degli intervistati e abbastanza grave dal 45,0%. L’opinione generale è negativa, ma non va ignorato il fatto che oltre 1 giovane su 10 (10,6%) lo considera poco o per nulla grave. Tale valore sale al 15% tra chi ha titolo di studio basso.
Solo al 30,1% non è mai capitato di imbattersi in tali gravi forme di discriminazione tramite un linguaggio violento. Il 10,5% si trova spesso davanti a situazioni di questo tipo. Il resto degli intervistati vi si imbatte occasionalmente.
Il 73,2% degli intervistati dichiara di non aver mai postato contenuti che potrebbero essere ritenuti hate speech, il resto lo ha fatto almeno una volta.
Le vittime principali, nella percezione degli intervistati, sono gli immigrati (58,8%), singole persone pubbliche (37,1%), gli omosessuali (35,4%), i musulmani (33%), le donne (25,3).
Per contrastare questi episodi, secondo i giovani intervistati, le azioni principali da fare sono: una segnalazione alle piattaforme o ai siti (78,4%), far eliminare da parte delle autorità l’hate speech individuato (73,3%), applicare censure da parte delle piattaforme e dei siti (70,1%).
Questi dati ci dicono che la grande maggioranza dei giovani ritiene utile che ci sia un intervento da parte di chi gestisce le piattaforme dei social o da parte della autorità per togliere le frasi che alimentano l’odio e gli attacchi personali. Esiste, però, una percentuale non trascurabile (26,7%) di chi pensa che tali frasi non debbano richiedere l’intervento di autorità esterne (si sale al 34,2% tra chi ha titolo di studio basso).
Riguardo all’utilità di campagne pubbliche di sensibilizzazione, il divario per titolo di studio è ancora più ampio: a non ritenerle utili è il 27,6% dei laureati, il 29,8% di chi ha un diploma di scuola superiore, e il 40,2% di chi si è fermato alla scuola dell’obbligo.
Se quindi un giovane su dieci non considera grave l’ hate speech, oltre un giovane su quattro pensa che tale linguaggio sia comunque parte del modo di comunicare in Rete e non richieda interventi esterni.
I contenuti che rendono scorretto e disapprovabile un commento solo per il 26% sono da ricondurre a critiche, anche forti, rivolte verso una persona e alle sue opinioni. Molto più che le critiche è ritenuto riprovevole un commento se contiene parole volgari (62,7%) e ancor più se vengono usati termini offensivi (73,4%). Ma per il 31,8% di chi ha titolo di studio basso anche un commento con termini offensivi può essere in alcuni casi legittimato (contro il 24% di chi ha titolo medio o alto).
Infine, tra chi ha subito episodi di hate speech il 41,6% ha preferito non reagire, con sensibili differenze di genere (37,5% per gli uomini e 47,1% per le donne). Dato che indica una difficoltà a trovare un modo adeguato per difendersi, con la conseguenza di trovarsi spesso a subire in silenzio.
LE BUFALE
Le cosiddette “bufale” sono notizie presentate e diffuse come vere e che invece si rivelano poi essere false. Qual è il livello di consapevolezza dei giovani verso questo fenomeno? Quanto è percepito come problema la formazione di convinzioni basate su fatti infondati? Come difendersi?
Il 28,5% ammette che gli è capitato di condividere una informazione che poi ha scoperto esser falsa. Al 73,8% degli intervistati è inoltre capitato di accorgersi di bufale pubblicate da amici.
La possibilità di cadere in questa trappola è legata alla frequenza di uso dei social e dalla frequenza con cui si condividono news postate da propri contatti o da altre fonti non istituzionali. C’è però anche un interessante legame con il titolo di studio e quindi con gli strumenti culturali di cui si dispone.
Tra chi ha titolo basso (si è fermato alla sola scuola dell’obbligo) la condivisione di una bufala sale al 31,7%, mentre scende al 28 per chi ha un titolo di scuola superiore, e al 24% tra i laureati.
I laureati ci cascano di meno ma si accorgono di più di una notizia falsa condivisa da un proprio amico/follower (77,8%, contro 74,6% di chi ha titolo intermedio e 70,4% di chi ha titolo basso).
Dopo un’esperienza personale o la diffusione da parte di un amico, il 75,4% degli intervistati dichiara di aver aumentato la sensibilità verso tale tema e l’attenzione verso contenuti sospetti. Il 55,6% ha smesso di condividere contenuti da contatti con contenuti rivelati come bufale, il 41,7% si è trovato anche a rimuovere contatti dalla propria rete.
Anche sulla reazione e sull’acquisizione di consapevolezza dopo un episodio negativo esiste una differenza legata al capitale umano della persona. L’aumento della sensibilità verso il tema sale al 79,1% per i laureati, contro 76,7 e 71,4 rispettivamente di chi ha titolo intermedio e basso.
Di norma condivido sempre e comunque, tanto è impossibile appurare l’attendibilità di quello che circola in rete. Quanto spesso ti trovi in questa situazione?
Laureati | Diplomati | Obbligo | Tutti | |
Sempre/spesso | 8,8 | 9,6 | 15,0 | 11,2 |
Qualche volta | 24,7 | 27,2 | 39,6 | 30,8 |
Mai | 66,5 | 63,2 | 45,4 | 58,0 |
Totale | 100,0 | 100,0 | 100,0 | 100,0 |
In generale come ci si cautela? L’11,2% non adotta mai nessuna strategia, condivide in modo indiscriminato ritenendo che sia impossibile comunque controllare la veridicità di tutto. Questa accettazione incondizionata è fortemente legata al titolo di studio. Solo la minoranza (45%) è del tutto contraria alla diffusione indiscriminata, mentre si sale al 63,2% tra chi ha titolo basso e al 66,5% di chi ha titolo alto.
Riguardo al come appurare l’attendibilità, ad un estremo c’è il 23,9% del totale del campione che afferma di andare usualmente “a fiuto”, condividendo le notizie che in base ad una sua valutazione personale ritiene fondate o di interesse, all’altro estremo il 38,9% che restringe drasticamente la condivisione alle sole notizie di fonte ufficiale. La maggioranza adotta qualche criterio selettivo intermedio tra tali due estremi, basandosi sull’autorevolezza della fonte (privata o pubblica) che fornisce la notizia o su propria previa verifica dei contenuti.
Il 45,5% di chi ha avuto esperienza di diffusione di notizie infondate concorda con l’idea che tutto sommato le “bufale fanno parte del gioco e del bello dei Social network”, senza differenze rilevanti per titolo di studio.
Per il 53% di chi le ha subite è diminuita complessivamente la propria fiducia sui Social network. In questo caso i più vulnerabili, perché rischiano maggiormente di caderci e hanno meno strumenti per difendersi, sono coloro che hanno titolo basso. Per essi la perdita di fiducia sale al 60,4 percento.
«La fiducia nei social network è comunque complessivamente bassa tra i giovani, ben consapevoli del fatto che molti li usano come passatempo e luogo in cui farsi notare o sfogare le proprie frustrazioni –afferma. Alessandro Rosina-, ma per una parte rilevante sono considerati anche un contesto in cui sviluppare dinamiche di relazione e scambio di informazioni, messo però in crisi dalle troppe insidie dalle quali non è sempre ben chiaro come difendersi».
Per info:
Istituto Giuseppe Toniolo
347.8528886
comunicazione@istitutotoniolo.it