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Intervista a Walter Passerini, autore de “La guerra del lavoro”

Abbiamo intervistato Walter Passerini, giornalista, docente di Linguaggi giornalistici e Sistema dei media all’Università Cattolica di Milano-Scuola di Giornalismo, grande esperto delle tematiche del lavoro e co-autore del libro “La guerra del lavoro” ” (editore Rizzoli, pagine 414, euro 13), uscito da pochi giorni in libreria. A lui abbiamo chiesto come sta cambiando il mondo del lavoro, specialmente per quanto riguarda la fascia di popolazione più dinamica ma allo stesso tempo più colpita dalla crisi: i giovani.

 

Professor Passerini, gli scenari sull’occupazione giovanile in Italia sono particolarmente preoccupanti. Come si può uscire da questo tunnel secondo lei?

C’è un clima depressivo che va fermato, che viene spesso alimentato dai media. La situazione occupazionale dei giovani è grave, ma non è un mantra impotente: bisogna passare dalle diagnosi alle proposte. Ci sono tre questioni su cui lavorare: la prima è quella di una riflessione sull’offerta formativa che deve adeguarsi ai mutamenti della realtà (appare critica la transizione dalla secondaria superiore all’università, che rivela troppa dispersione e disorientamento dei giovani e delle famiglie; appare anche matura una nuova offerta formativa post-diploma di tipo terziario professionalizzante); la seconda riguarda il mercato del lavoro, che nelle forme attuali penalizza i giovani con contratti flessibili che, in assenza di adeguati servizi all’impiego, si trasformano in una condanna alla precarietà; la terza riguarda le culture del lavoro dominanti, che da un lato hanno ridotto il valore del lavoro, dall’altro sono prigioniere di una visione che immagina il lavoro esclusivamente come lavoro dipendente. E’ necessario pensare al futuro del lavoro, invece, come lavoro “indipendente” e “intraprendente” e non solo “dipendente”.

 

Nel suo libro ha citato i dati del Rapporto Giovani: cosa l’ha colpita in particolare della ricerca in questione?

Intanto l’ampiezza e la rigorosità della ricerca, che correttamente è sempre in movimento, non fotografa ma filma e aggiorna. Sui risultati, ho apprezzato la maturità, una disillusione pragmatica e aperta dei giovani e la permanenza della speranza verso il futuro. Sui valori del lavoro emersi, se è vero che è ancora forte il peso della cultura strumentale (“il lavoro è uno strumento diretto a procurare reddito”), mi consolano e mi stimolano le visioni che assegnano al lavoro una funzione di “forte impegno sociale”, una “modalità per affrontare il futuro” e una “modalità di autorealizzazione”. Spero nella crescita dei modelli espressivi e solidali.

 

I Neet sono un fenomeno sempre più rilevante ma su cui occorre compiere analisi più approfondite. Lei come vede la realtà dei giovani che non studiano né lavorano?

E’ il frutto della mancanza e dell’inadeguatezza delle politiche e delle culture dell’orientamento, il segno della rassegnazione e del fallimento delle politiche formative, la scarsa lungimiranza delle politiche del lavoro. Se i Neet under 29 sono stimati in 2,3 milioni in Italia, mi preoccupa l’inerzia dei decisori politici, economici e formativi e l’abulìa della società, che tende a rimuovere il problema. Più che di stanchi e inefficaci interventi, avremmo bisogno di terapie d’urto e programmi di emergenza. Primo tra tutti la costruzione di una rete di servizi all’impiego, pubblici e privati, degna di questo nome, che verrà presto messa alla prova dall’avvio della cosiddetta Garanzia giovani, il programma europeo per ridurre la disoccupazione del Neet e degli under 29.

 

In parlamento si sta discutendo molto del Job Act, la riforma del lavoro voluta dal premier Renzi. Quali effetti potrà avere sull’occupazione, specialmente quella giovanile?

La priorità è il lavoro, che non arriva per il magico incontro automatico della domanda e dell’offerta. Bisogna puntare sulla crescita e sulla creazione di lavoro, termini che fanno sorridere alcuni benpensanti, che pensano che il lavoro cada dal cielo. La forza del Job act sta nella velocità e nell’integrazione di tre obiettivi: la razionalizzazione delle formule contrattuali; l’individuazione di alcuni settori prioritari di sviluppo su cui puntare; la semplificazione del fare impresa e la sburocratizzazione del sistema pubblico, che ha un ruolo decisivo sulle politiche di welfare, sugli ammortizzatori sociali e sulla creazione di servizi efficaci. Il diritto al lavoro del futuro è il diritto ai servizi per il lavoro.

 

Nel suo libro parla di proletarizzazione dei professionisti. Come è avvenuto questo cambiamento? E che modalità avrà nei prossimi anni?

La tendenza all’appiattimento è generale. Il sistema delle professioni sta subendo una rivoluzione e non riesce ancora a gestirla. Ci sono ancora troppe sacche di resistenza nelle cosiddette professioni ordinistiche, nascono nuove professioni che non hanno alcuna identità. La polverizzazione e la proletarizzazione dei giovani professionisti è la conseguenza di questi processi. E’ finito il tempo in cui diventare avvocato, dottore commercialista e per certi versi anche notaio garantiva il futuro. Ci sono giovani avvocati, dottori commercialisti e consulenti del lavoro che hanno redditi inferiori ai 10mila euro all’anno. E’ la conferma dell’esistenza dei “working poors”: si può essere poveri pur avendo un lavoro; si può essere poveri avendo studiato ed essendo dei professionisti. La difesa delle professioni non può più essere fatta in chiave conservativa, ma aprendosi al mondo e alle nuove opportunità.

 

Prendendo spunto dal titolo del suo libro, il mondo del lavoro è davvero diventato un campo di battaglia? Ci può spiegare meglio questa definizione?

Più che una battaglia è la prossima e già cominciata “Guerra dei trent’anni”, che sarà una guerra per il lavoro. A due livelli: il primo è la dimensione della globalizzazione, che vede emergere nuovi commensali, che creano movimenti, conflitti e flussi destinati a destabilizzare i rapporti internazionali esistenti (vedi i Brics, i Mint, i Next e così via); il secondo è all’interno dei singoli paesi, nei quali si sviluppano diverse guerre ai diversi livelli: dipendenti contro autonomi, precari contro professionisti, giovani contro adulti, disoccupati contro occupati, e così via. Ogni guerra crea vittime, è uno scontro tra vincitori e vinti. La “Guerra del lavoro” non è pacifica e non ammette diserzioni: tutti ne sono coinvolti, nessuno è al sicuro. Qualcuno sostiene che il lavoro è e sarà sempre più scarso. E’ un’affermazione discutibile ed eurocentrica. Nel mondo il lavoro regolare sta crescendo, anche se permangono il “dumping sociale” e il “dumping dei diritti”. Ci vuole una nuova regìa nel mondo tra paesi ricchi e paesi poveri e all’interno dei paesi più maturi, e per ora fortunati, è necessaria una nuova classe dirigente. Serve una nuova leadership, il cui obiettivo morale, prima ancora che economico, sia quello della creazione di lavoro, di occupazione, di ricchezza, per offrire pari dignità e pari opportunità a tutti, soprattutto ai più deboli.

“Più della metà dei giovani crede ancora nell’Europa”

La maggioranza dei giovani italiani boccia i partiti del Parlamento italiano, ma non l’Europa. Benché siano fortemente critiche nei confronti delle istituzioni comunitarie, le nuove generazioni sperano in un rilancio del progetto europeo e continuano a vedere nell’Europa il luogo delle opportunità di studio e di lavoro.

 

Questo è quello che emerge dai dati del Rapporto giovani dell’Istituto Giuseppe Toniolo raccolti da Ipsos a febbraio 2014 su un campione rappresentativo di 1638 giovani italiani tra i 18 e i 29 anni. La ricerca sarà al centro del convegno, organizzato dalla Diocesi di Milano, il 16 e il 30 marzo a Villa Cagnola di Gazzada (Varese) “L’Europa è ancora il nostro futuro”. Durate le due sezioni interverranno dalle ore 16 (domenica 16 marzo) monsignor Luca Bressan (vicario episcopale per la Cultura, Carità e Azione sociale dell’Arcidiocesi di Milano), il dott. Emiliano Sironi (ricercatore in Demografia e Statistiche sociali all’Università Cattolica di Milano), monsignor Duarte Nuno Queiroz de Barros da Cunha (segretario generale del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee), Gianfranco Brunelli (direttore responsabile de «Il Regno»). Nella seconda sessione (30 marzo), sempre dalle ore 16 don Eros Monti (direttore di Villa Cagnola), padre Giacomo Costa S.J. (direttore di «Aggiornamenti Sociali») e Paolo Magri (vicepresidente esecutivo e direttore dell’Istituto di Studi di Politica Internazionale).

 

Secondo la ricerca l’atteggiamento dei giovani italiani verso l’Unione Europea è critico come nel resto della popolazione; il giudizio è però meno negativo rispetto a quello dato verso le nostre istituzioni nazionali. Se infatti alla richiesta di assegnare un voto da 1 a 10, la maggioranza boccia sia i partiti che il Parlamento italiano, “solo” il 44% dà un’insufficienza all’operato della Ue. Prevalgono quindi i voti positivi, anche se solo il 12% si dichiara pienamente soddisfatto (da 8 in su). Pur, quindi, nella critica rimane comunque una apertura di credito.

 

Una dei limiti maggiori è il fatto che finora l’Europa è apparsa più un insieme di parametri e vincoli burocratici (il 70% condivide questa opinione) che un reale luogo delle opportunità. Tuttavia, più che bocciare il progetto europeo le nuove generazioni italiane auspicano semmai un rilancio. Solo il 22% si contrappone ad una unione politica che arrivi a formare gli Stati Uniti d’Europa (il 21,5% non si esprime, e la netta maggioranza è favorevole). Solo poco più di un giovane su quattro vede i vincoli prevalere sulle prospettive positive che l’Europa apre. Oltre li 60% adotta invece un atteggiamento propositivo, pronto a riconoscere e cogliere invece le opportunità anche in termini di occasioni di studio e lavoro in altri paesi. Un po’ meno ampia è invece l’apertura verso la mobilità da paesi extra comunitari. Il 36,3% ne ha una visione negativa, contro però il 52,8% che la considera complessivamente positiva.

Secondo il prof. Alessandro Rosina, curatore dell’indagine dell’Istituto Toniolo, «le nuove generazioni italiane sembrano avere introiettato l’idea di una multi appartenenza, che assieme al luogo di nascita contempla anche un sentimento radicato di destino comune europeo. Sono consapevoli dei limiti che questo progetto ha sin qui avuto, ma più che tornare indietro esiste una forte voglia di guardare avanti. Questo significa che le nuove generazioni possono essere le migliori alleate, se incoraggiate nel loro protagonismo positivo, per un progetto credibile di rilancio del progetto europeo».

Condizione femminile, intervento del professor Rosina alla rubrica “Fuori Tg” di Rai3

L’intervento del professor Alessandro Rosina, uno dei curatori del Rapporto Giovani, alla trasmissione di approfondimento del Tg3 “Fuori Tg”, andata in onda il 7 marzo 2014 e dedicata alla condizione femminile, tema di uno degli ultimi approfondimenti della ricerca promossa dall’Istituto Toniolo.

 

 

Festa della donna: “Giovani donne lontane dalla politica, incapace di dare risposte concrete”

Sono molto lontane dalla politica, non perché non siano informate, ma perché la vedono molto orientata al potere e non a dare risposte concrete. Le donne under 30 non si ritrovano negli attuali modelli femminili che la politica offre tant’è che sono i genitori a ad aver contribuito alla formazione della propria idea politica (il 35,50 % contro il 24,8% dei coetanei maschi ) e non figure istituzionali.

 

E, per questo, preferiscono impegnarsi in attività socialmente utili più dei coetanei maschi.

 

Sono interessate, infatti, a tenersi informate ma non intendono prendere parte all’agone politico (35,2%) e per loro l’obiettivo che l’azione di governo dovrebbe porsi è soprattutto il sostegno alle fasce più deboli della popolazione. E’ quanto emerge dalla ricerca realizzata nell’ambito del Rapporto Giovani (www.rapportogiovani.it) a partire da un campione di 9000 giovani di età tra i 18 e i 29 anni, promossa dall’ Istituto Giuseppe Toniolo in collaborazione con l’Università Cattolica e con il sostegno di Fondazione Cariplo e di Intesa Sanpaolo.

 

“Non è solo una questione di quote rosa” afferma il professor Alessandro Rosina, coordinatore del Rapporto Giovani “Se non si trasmette alle nuove generazioni femminili, attraverso esempi positivi, l’idea che la politica non è solo gestione del potere ma possibilità di poter davvero incidere sul bene comune e contribuire alla costruzione di un modello di sviluppo più equo e solidale, difficilmente verrà superata l’attuale diffidenza. La crescita del peso femminile nei processi decisionali, come vari studi documentano, aiuta a migliorare non solo la condizione delle donne ma del sistema paese nel suo complesso producendo politiche non solo più attente al benessere sociale, ma anche più efficienti”.

 

Secondo la ricerca la giovane donna di oggi, pur ritenendo in larga maggioranza un valore la famiglia centrata sul matrimonio, non pensa di sposarsi nel breve termine. Per lei la famiglia d’origine è il luogo dove esprimere se stessa, dove si imparano e trasmettono i valori del contesto in cui si vive, è il luogo di apertura allo scambio con gli altri, mentre per i coetanei maschi la famiglia è vivere semplicemente insieme. Ed è sempre la famiglia ad avere aiutato le donne a stare bene con gli altri e a raggiungere i propri obiettivi, a rispettare le regole, è stata importante per decidere quale partito votare o se credere in Dio o no più che per gli uomini della stessa età. Il 63,6% delle donne under 30 italiane non si vede sposata a breve termine, anche se solo il 29,8% lo esclude del tutto, mentre il 48,5 esclude certamente che avrà figli entro i prossimi 3 anni. Più che per gli uomini il lavoro è da loro considerato un luogo per realizzarsi e di impegno personale oltre a essere un modo per costruirsi un futuro.

 

Il 39% delle giovani donne è disponibile a trasferirsi in un’altra città d’Italia e il 33% all’estero per trovare lavoro. Il 59,3% non si è mai impegnato nel volontariato, mentre il 93,1% non è politicamente attivo. Delle giovani donne, uscite di casa per studio, il 45,7 % è rientrato al termine del periodo legato agli studi (31,1 % per i maschi), mentre l’11,6% perché è finito il periodo di lavoro, percentuale che sale al 30,2 % per i coetanei. Il 61,2% delle donne intervistate ha dichiarato di essere credente cattolica, il 12 % non crede in nessuna religione o filosofia trascendente, il 9,7% crede in un’entità superiore, ma non fa riferimento a nessuna religione.

 

“I dati sulla bassa propensione al matrimonio sono l’esito di due fattori – continua il professor Alessandro Rosina -. Il primo fattore, caratteristico delle società moderne avanzate, è legato alla posticipazione delle tappe di transizione alla vita adulta. Mentre in passato era comune per una donna formare una propria famiglia ed avere figli prima dei 25 anni, ora l’investimento in formazione e l’attenzione alla costruzione di un percorso professionale, fanno rinviare tali scelte più vicino alla soglia dei 30 anni e oltre. Il desiderio di realizzarsi anche formando un’unione di coppia con figli rimane però alto. La maggioranza dichiara, infatti, di desiderare di avere nel complesso almeno due figli e considera il matrimonio una tappa importante anche se non più cruciale come in passato. Il secondo fattore è, invece, da ricondurre alle difficoltà delle nuove generazioni sul mercato del lavoro, accentuate dalla combinazione tra crisi e carenza di politiche attive e di conciliazione. Se non si interviene soprattutto su questo punto il rischio è che il rinvio si trasformi, per molte di esse, progressivamente in rinuncia”.

“Perché l’Italia è un paese per giovani”: il video di Alessandro Rosina a TEDxIED

L’intervento di Alessandro Rosina, uno dei curatori del Rapporto Giovani, alla seconda edizione di TEDxIED

 

Neet, è allarme: sono 690 mila i giovani che non lavorano

A gennaio 2014 gli occupati sono 22 milioni 259 mila, sostanzialmente invariati rispetto al mese precedente e in diminuzione dell’1,5% su base annua (-330 mila). A rilevarlo è l’Istat, che ha riscontrato come il tasso di occupazione, pari al 55,3% sia diminuito di 0,1 punti percentuali in termini congiunturali e di 0,7 punti rispetto a dodici mesi prima. Il numero di disoccupati, pari a 3 milioni 293 mila, aumenta dell’1,9% rispetto al mese precedente (+60 mila) e dell’8,6% su base annua (+260 mila). Il tasso di disoccupazione è pari al 12,9%, in aumento di 0,2 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 1,1 punti nei dodici mesi.

 

Allarme Neet. I disoccupati tra i 15 e i 24 anni sono 690 mila. L’incidenza dei disoccupati di 15-24 anni sulla popolazione in questa fascia di età è pari all’11,5%, in aumento di 0,3 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 0,8 punti su base annua. Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, ovvero la quota dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca, è pari al 42,4%, in aumento di 0,7 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 4,0 punti nel confronto tendenziale.

 

Il numero di individui inattivi tra i 15 e i 64 anni diminuisce dello 0,3% rispetto al mese precedente (-45 mila unità) e dello 0,1% rispetto a dodici mesi prima (-9 mila). Il tasso di inattività si attesta al 36,4%, in calo di 0,1 punti percentuali in termini congiunturali ma in aumento di 0,1 punti su base annua.

Coldiretti: metà dei trentenni vive con la “paghetta” dei genitori

Tra i trentenni italiani aumenta la sfiducia nei confronti della politica, così come la dipendenza dai genitori: metà dei giovani italiani prende ancora la “paghetta” dai propri familiari per far fronte alle spese correnti. Questi alcuni degli spunti emersi dall’indagine Coldiretti-Ixé, che hanno riscontrato come il raggiungimento dell’indipendenza economica per i giovani italiani allo stato attuale risulti ancora lontana: più della metà dei trentenni italiani vive infatti con la paghetta dei genitori (51 per cento) o dei nonni e altri parenti (3 per cento) che sono dunque costretti ad aiutare i giovani fino ad età avanzata. Il soccorso di genitori e parenti sale al 79% se si considerano gli under 34.

 

Allarme Neet anche per i trentenni. Quelli che si sono dati alla ricerca attiva del lavoro nell’ultimo anno hanno presentato in media 20 curriculum, ma il 44 per cento ci ha rinunciato e non ha inviato alcuna domanda di assunzione o lavoro. Otto su dieci, nel target fino a 34 anni, dichiara di conoscere qualcuno che ha trovato lavoro grazie alle raccomandazioni.

 

La distanza è dal mondo del lavoro, ma anche da quello della politica. Quasi un giovane italiano su tre (il 31%) non conosce il nome del presidente del Consiglio, il 30% quello del presidente della Camera, il 37% quello del presidente del Senato. Solo il 5% del campione non conosce il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano o il Papa, che tra le nuove generazioni regnano ancora incontrastati tra i protagonisti della vita economica e sociale.

“Tutto il mondo è paese”. Il commento di Serena Carta (blogger Vita.it) sugli under35 che vivono con i genitori

di Serena Carta

In Italia 7 milioni di under 35 vivono a casa con i genitori. Ma cosa succede nel resto del mondo?

 

Un’italiana, una slovacca, un inglese, un’indiana, una brasiliana, un tedesco, una svedese e una francese. Il più giovane ha 27 anni, i più “vecchi” sono poco più che 30enni. Le loro vite si sono incrociate in Europa per via di uno stage post laurea che per alcuni è diventato un lavoro, per altri  un nuovo stage, per altri ancora è stata semplicemente l’occasione per dare una svolta alla propria vita. Seduti intorno al tavolo, a sorseggiare una birra e a passare dall’inglese al francese e poi di nuovo all’inglese, si sentono simili, parte di una stessa grande famiglia, in questo continente multiculturale che li ha accolti e che, in un modo o nell’altro, gli dà da vivere. Abitano tutti quanti da soli. C’è chi sta in collocation, chi convive col partner e ha un figlio, chi abita per conto proprio in un monolocale. C’è persino qualcuno che ha già alle spalle un divorzio.

 

L’inglese se n’è andato di casa a 18 anni: «Da quel momento non sono mai più tornato a vivere con i miei (vacanze a parte). Fino a 10 anni fa in Gran Bretagna venivi considerato un vero e proprio ‘sfigato’ se a 22 anni stavi ancora a casa con i genitori! Era un po’ come dimostrare al mondo che non eri in in grado di guadagnarti il pane. D’altronde è tipico della cultura britannica: finire le scuole superiori e andare all’università equivale a lasciare il nido. Oggi le cose stanno un po’ cambiando, per via della crisi: i giovani sono tutti sulla stessa barca e quindi non è più fonte di imbarazzo continuare a vivere con la propria famiglia, anche durante l’università. In fondo, con tutte queste internship non retribuite, qual è l’alternativa?». Anche in Germania, in Svezia e in Francia si tende ad andare via dalla casa dei genitori abbastanza presto, tra i 18 e i 22 anni. «Dai 16 in poi la vita a casa dei miei era diventata insopportabile e io avevo un solo desiderio: andarmene via!» esclama la francese. E la crisi? Non pervenuta. Oltreoceano, invece, le cose vanno diversamente: «In Brasile dipende dalla regione in cui vivi e dalla classe sociale di provenienza. Nel Nord la maggioranza dei giovani vive con i genitori fino a che non si sposa. Si lascia la casa natale solo se si trova un lavoro in un’altra città o se la famiglia ha i soldi per mandarti a studiare altrove. E anche se sei uno studente lavoratore, è raro che tu riesca a cavartela con quel poco che guadagni. Tra le famiglie più povere, invece, è normale restare con la famiglia anche dopo il matrimonio. Al Sud sono abituati ad andare via di casa prima, forse per la vicinanza di grandi città come Rio o San Paolo. Comunque, in generale, è una questione economica e culturale: te ne vai quando hai soldi per mantenerti (la crisi non centra, il Brasile sta andando piuttosto bene) e non c’è niente di male a rimanere in casa anche dopo i 30 anni. Adesso che ci penso… sapete chi abbandona la tana? I figli dei divorziati: hanno diritto a un sussidio da parte di uno dei genitori e così riescono a pagarsi l’affitto».

Anche in India non c’è da vergognarsi a rimanere con la famiglia. Qui l’andarsene di casa non sembra essere una priorità per la gioventù: «Se si studia e lavora nella stessa città, è normale vivere in casa dei propri genitori anche quando si è già sposati». In Slovacchia, infine, la situazione è molto simile a quella italiana: «Oggi i giovani vivono insieme ai loro genitori a lungo. Di solito ci restano per tutto il periodo degli studi, fino a che non si trovano un lavoro o si creano una loro famiglia. Secondo statistiche recenti, quasi il 60% dei giovani slovacchi tra i 25 e i 34 vive in casa. Forse si tratta di dati non accurati perché, come anche nel mio caso, molti di noi pur vivendo all’estero risultano ancora residenti nella casa dei genitori. In ogni caso, il tasso di disoccupazione giovanile è aumentato e, data la situazione di incertezza odierna, anche chi ha un lavoro a tempo pieno preferisce risparmiare i soldi dell’affitto e continuare a vivere in casa».

Da questo affresco, cultura ed economia sembrano dunque essere i due fattori che determinano il destino abitativo dei giovani nel mondo. La particolarità è che gli stati laddove “l’emancipazione casalinga” è più affermata sono gli stessi che prevedono incentivi finanziari all’indipendenza. In Gran Bretagna esiste per esempio la housing allowance, un contributo mensile che copre parte dell’affitto, anche se «se è la tua unica fonte di reddito non riesci a pagarti un appartamento da solo: per questo la maggior parte degli studenti e dei giovani convivono». Simile è la situazione in Francia, dove la CAF (Caisses d’Allocations Familiales) versa aiuti finanziari ai cittadini di reddito medio-basso, quindi anche agli studenti e ai giovani lavoratori, che farebbero fatica a coprire i costi dell’affitto. In Germania «il supporto statale dipende da quello che fai quando te ne vai di casa. Se sei studente e i tuoi genitori hanno un reddito basso, allora ricevi un prestito (Bafög) il cui 50% sarà da restituire alla fine degli studi. Se sei disoccupato, il governo dovrebbe darti un sussidio di 350 euro e aiutarti con l’affitto (in totale hai diritto a ricevere circa 700 euro); se però hai meno di 25 anni, sei tenuto a vivere con la famiglia. Infine, se sei studente e vieni da una famiglia benestante, questa è obbligata per legge a mantenerti fino ai 25 anni, che tu viva o no in casa». La Svezia, dal canto suo, supporta gli studenti con sussidi o prestiti: «Un dato importante che bisogna tenere a mente è che la maggioranza degli studenti, già dalle scuole superiori, lavora durante gli studi. Questo permette loro di essere indipendenti economicamente sin da giovanissimi». Anche in Slovacchia i più giovani hanno diritto a un aiuto statale, tramite un programma che permette di acquistare una casa con un’ipoteca, pagandola a rate con tassi agevolati.

E in Italia? A parte iniziative locali di natura pubblica o privata – come la recente Vivo al venti torinese, promossa dal Fondo Abitare Sostenibile Piemonte (FASP), un fondo immobiliare etico nel quale confluiscono risorse provenienti dal patrimonio di diverse fondazioni bancarie piemontesi – il sostegno all’autonomia giovanile non sembra essere una priorità. E allora non stupiamoci quando l’ISTAT ci dice che oltre il 60% degli under 35 vive ancora con mammà; non chiamiamoli però neanche bamboccioni perché, a differenza dei coetanei nel mondo, molto spesso l’alternativa, loro, se la devono trovare da sé.   

Fermi davanti al Mar Rosso: l’emancipazione bloccata dei giovani italiani

Pubblichiamo l’articolo di Alessandro Rosina, uno dei curatori del Rapporto Giovani e pubblicato da Neodemos.

Di Alessandro Rosina

 

L’ultimo Rapporto sulla coesione sociale, pubblicato dall’Istat a fine 2013, riportava tra i molti dati interessanti, anche quello della permanenza dei giovani nella famiglia di origine. Nulla di nuovo, solo la conferma delle difficoltà dei giovani a lasciare la casa dei genitori. Un dato ben noto da tempo, che la crisi non poteva che inasprire. Ma i giornali vanno pur riempiti e quindi ecco che a distanza di oltre un mese il dato viene rispolverato e messo in bella mostra con tanto di titoloni che immancabilmente scivolano sui logori stereotipi dei giovani bamboccioni (“Sono sempre di più i trentenni che preferiscono gli agi della casa d’origine alle difficoltà di doversi  gestire da soli”, la Repubblica 10 febbraio 2014,  p. 25) e schizzinosi (“genitori dovrebbe impegnarsi a spendere la loro influenza per far sì che i figli, anche se laureati, non rinuncino alle occasioni di lavoro che capitano. Anche se si tratta di posizioni molto distanti per profilo professionale/status/retribuzione dagli obiettivi che ci si era dati”, Il Corriere della Sera 10 febbraio 2014, p. 11).

 

E’ bene allora, sinteticamente, precisare due punti chiedendoci: E’ vero che i bamboccioni sono la maggioranza di quelli che vivono con i genitori? E’ vero che sono schizzinosi e che si muovono solo quando trovano il lavoro dei sogni?

Bamboccioni?

Non esiste una definizione scientifica della categoria dei “bamboccioni”. Presumendo che siano quelli che vivono felicemente alle dipendenze dei genitori, cerchiamo di capire quanti sono attraverso i dati Istat. La percentuale di chi dichiara “sto bene così, conservo la mia libertà” è scesa dal 40,6% del 2003 al 31,4% del 2009 (indagine “Famiglia e soggetti sociali”), mentre chi indica come motivo le difficoltà economiche è aumentato dal 34% al 40,2% (il complemento a 100 sono gli studenti).

ingrandisci figura1rosina.jpgDel tutto coerente con il fatto che le oggettive difficoltà economiche siano diventate prevalenti sui fattori culturali è anche il sorpasso del Sud rispetto al Nord sui tempi di uscita dalla famigliadi origine. Tradizionalmente a vivere a lungo con i genitori erano soprattutto i giovani delle regioni centro-settentrionali, non è un caso che ora invece la posticipazione risulti più accentuata dove le opportunità di occupazione giovanile sono più basse e le politiche di attivazione sono più carenti (Figura 1).

 

Schizzinosi?

E’ vero che i giovani nemmeno ci provano? Che non si adattano a quanto il mercato offre? I dati dell’indagine “Rapporto giovani” promossa dall’Istituto Toniolo evidenziano come sia larga la quota di chi, pur di lavorare, accetta un lavoro sottoinquadrato, scarsamente remunerato (46%), non pienamente in linea con il proprio percorso di studi (47%). Sempre secondo tale indagine circa due giovani su tre dopo aver lasciato la famiglia di origine per studio o lavorano si son trovati a dover ribussare alla porta dei genitori.  

Dati che indicano come la voglia di provarci e mettersi in gioco ci sia. Troppo spesso, e più che in altri paesi, questa disponibilità si scontra però con le difficoltà e i fattori di scoraggiamento di un welfare inadeguato e di un mercato del lavoro inefficiente. Il vero dato di fatto è che su tutti gli strumenti che negli altri paesi funzionano nel rendere attive le nuove generazioni noi cronicamente investiamo di meno (Linkiesta: La scelta razionale di andarsene dall’Italia, la sfida di cambiarla) e nessuna reale inversione di tendenza si è ancora vista.

E’ bene ed è giusto incoraggiare i giovani a trovare il coraggio di buttarsi di più e affrontare anche il deserto, pur di arrivare alla terra promessa. Ma, come insegna anche il racconto biblico, se davanti a passaggi come quello del mar Rosso ci si trova abbandonati a se stessi non si può andar lontano.

Fiducia: è la mamma la figura di riferimento dei giovani

Sono pochi i giovani che non hanno una figura di riferimento nella vita e se non ce l’hanno è perché al momento non l’hanno ancora trovata. Vorrebbero che fosse un amico o un’amica perché riconoscono in questa figura la capacità di ascoltare senza giudicare. Se si chiede alle nuove generazioni chi sia a ricoprire questo ruolo nella propria vita, la figura, cioè, con cui si confrontano più frequentemente per parlare di sé, per il 33% è la mamma (percentuale che sale al 38% tra le donne e i giovanissimi tra i 18 e i 20 anni). Il 14% risponde il partner, mentre il papà si ferma al 9%. Il 26 % dei favori per un amico vero, seguono professori, educatori e figure religiose con solo l’1% delle citazioni.

 

E’ quanto emerge dall’approfondimento su 1.638 giovani, realizzato nell’ambito del  Rapporto Giovani  (www.rapportogiovani.it), la ricerca dell’Istituto Giuseppe Toniolo sui giovani dai 18 ai 30 anni, e resi noti, oggi, martedì, in occasione del XIII Congresso della Cei per la Pastorale Giovanile “Tra il porto e l’orizzonte” in corso a Genova. A presentare tutti i risultati, Nando Pagnoncelli, presidente di Ipsos, cui è affidata la rilevazione avviata dall’Istituto Toniolo in collaborazione con l’Università Cattolica di Milano e con il sostegno di Fondazione Cariplo e di Intesa Sanpaolo, e Pierpaolo Triani, docente all’Università Cattolica, fra i curatori della ricerca.

 

Guardando alle differenze di genere, la mamma rimane in testa alle classifiche per le figlie (38%), mentre per i figli maschi un amico batte di un punto la madre (28% contro il 27%). L’aiuto maggiore che cercano è quello di chi  è disinteressato (22%), che ascolta senza giudicare (21%) e che riesca a far capire loro dove sbagliano (16%) garantendo il massimo della comprensione (16%). L’amico ascolta senza giudicare (54%) e capisce realmente i problemi da affrontare (42%). La mamma e il partner sono disinteressati e pensano solo al bene del figlio/a o del compagno/a (entrambe al 42%). E’ il partner a trasmettere serenità ed entusiasmo per la vita (35%), il padre è invece simbolo di autorevolezza (30%) e di esperienza (26%). Un giovane su venti (il 5%) dichiara di non avere figure di riferimento: il 60% di questi non la trova anche se ne sente il bisogno mentre il 30% pensa di cavarsela da solo.

 

“Avere uno sguardo educativo sui giovani significa vincere la spinta alla generalizzazione e al pessimismo per assumere invece una prospettiva di fiducia e di promozione delle loro risorse e le loro potenzialità – questo il commento di Pierpaolo Triani  professore associato di Didattica Generale presso la Facoltà di Scienze della Formazione, Università Cattolica del Sacro Cuore -. Una prima parola chiave oggi è certamente fiducia, da non intendersi come ottimismo ingenuo, ma come attenzione alla domanda e alla forza di vita che anima i giovani. La fiducia interpella l’educazione in due sensi: è necessario metterla in gioco per costruire progetti e relazioni, ma occorre anche promuoverne nei giovani la crescita, nei confronti di loro stessi, degli altri, della vita sociale e civile. Una seconda parola chiave diventa così partecipazione.  I ragazzi e i giovani di oggi sono giustamente interessati alla loro realizzazione, ma spesso la leggono in contrapposizione a quella degli altri. Diventa importante oggi rimettere al centro l’attenzione all’altro, la ricerca di una integrazione tra il bene personale e il bene comune, l’importanza di pensare il futuro non al singolare, ma al plurale. Una terza parola chiave è trascendenza. L’attenzione alla vita che anima i giovani è abitata da domande di senso che non trovano però spesso parole e interlocutori giuste per essere espresse”.

 

GRAFICI:

 

Domanda: Se dovessi pensare ad una figura di riferimento nella tua vita, quella con cui ti confronti più spesso per parlare di te, chi diresti?

 

 

Domanda: E se dovessi dire perché è lui/lei la tua figura di riferimento, cosa diresti – analisi per persona di riferimento

 

 

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