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Trentenni “sopraffatti dal mestiere di vivere”

Per il cardinale Scola i trentenni “sono il cuore della nostra società”, ma rischiano di essere “sopraffatti dal mestiere di vivere”.

Non è proprio edificante il ritratto dei trentenni a Milano, che emerge dal “Rapporto sulla città”, presentato lunedì 24 giugno dalla Fondazione Ambrosianeum e dedicato proprio a questa fascia d’età che riguarda 175.437 milanesi.

 

Fra i relatori, è intervenuto anche il cardinale Angelo Scola . Per l’ Arcivescovo di Milano quella dei trentenni e’ una generazione “che incontra difficolta’ oggettive”. E le “comunita’ ecclesiali non riescono a intercettarla”.

 

Il rapporto sulla  città della Fondazione Ambrosianeum contiene anche il saggio “Evangelizzazione e generazioni intermedie” scritto dal cardinale, nel quale sottolinea come per i trentenni milanesi i problemi nascano innanzitutto sul lavoro, con “richieste di impegno sempre più incalzanti, negli orari e nei tempi, sempr e più frazionati e poco rispettosi dei ritmi famigliari, con una più elevata mobilità”. Al lavoro si aggiungono “l’incertezza per il futuro, delusioni, il profilarsi di rischi occupazionali, e per molti il concretizzarsi della disoccupazione o il permanere in situazioni di precarietà”. I trentenni inoltre spesso vivono “un’esperienza affettiva fragile, affaticata e non di rado compromessa, a cui si aggiunge il carico del compito educativo”  verso i figli.  Tale situazione non può lasciare  indifferente la Chiesa e in particolare le parrocchie. “È  singolare che le nostre comunità ecclesiali non  intercettino proprio queste generazionie non abbiano per esse  proposte attente alla loro vita”, sottolinea il cardinale Scola.

 

Nel suo intervento Alessandro Rosina, fra i docenti che collaborano al Rapporto Giovani e membro del consiglio direttivo della Società italiana di statistica, “il 28 per cento dei 30-34enni milanesi è straniero”.

 

“Direi che i trentenni sono coraggiosi più che perduti. Malgrado un sistema che li ha ostacolati per anni e che tuttora non dà loro la possibilità di accedere a beni primari come la casa, sono andati avanti, hanno provato a farsi piacere il lavoro che hanno trovato e a creare una famiglia – ha dichiara Cristiana Pasqualini,  ricercatrice della facoltà di Scienze politiche e sociali dell’ Università Cattolica – Probabilmente politiche nazionali e locali più efficaci finalizzate alla promozione dell’autonomia aiuterebbero questi giovani, che sentono di aver speso decenni della loro vita alla disperata ricerca di qualche punto fermo”.

 

Se crediamo è perché lo scegliamo

Ben più della metà dei giovani italiani si sente cattolica.  Almeno uno su quattro dice di frequentare le celebrazioni religiose con una certa frequenza. Emerge da alcuni dati (che Credere propone in anteprima) su appartenenza e pratica religiosa rilevati dal Rapporto giovani, un’ampia ricerca sulla condizione delle nuove generazioni curata dall’Istituto Toniolo, l’ente fondatore dell’Università cattolica del Sacro Cuore. Il progetto intende studiare il mondo giovanile (con un campione di 9.000 persone dai 18 ai 29 anni) per cinque anni. I primi risultati sono in corso di pubblicazione con l’editore Il Mulino. A un mese dalla Giornata mondiale della gioventù, quando papa Francesco a Rio de Janeiro incontrerà i ragazzi di tutto il mondo, ecco dunque una fotografia aggiornata sul rapporto tra i ventenni italiani e la fede. Una relazione influenzata in modo evidente dalla secolarizzazione che sembra mettere in dubbio la tradizionale designazione dell’Italia come Paese cattolico tout court. Ma emergono anche segnali incoraggianti per la Chiesa: la sfida della nuova evangelizzazione è tutt’altro che una partita persa. Cala il numero di giovani che si definiscono credenti, ma si sta passando da una religiosità ereditata a un’adesione “scelta”. Chi si dice cattolico, insomma, cerca poi di esserlo davvero. Credere ha chiesto di presentare e commentare i nuovi dati della ricerca al professor Pierpaolo Triani, collaboratore del Rapporto giovani e docente di Pedagogia all’Università cattolica

 

Il 56% dei giovani si dichiara credente

Nella vita dei giovani che peso ha ancora la dimensione religiosa? La risposta arriva dal Rapporto Giovani.

Sul tema, Radio Vaticana ha intervistato il prof. Pierpaolo Triani, fra i docenti dell’Università Cattolica, che collaborano alla ricerca.

I dati indicano che la scelta di credere è sempre meno dettata dal gruppo sociale di riferimento, mentre cresce la consapevolezza, nei giovani tra i 19 ed i 30 anni, della scelta religiosa. La religiosità vive una trasformazione anche tra i giovani, dimensione che permane ancora vissuta però come scelta individuale. I giovani che si dichiarano credenti sono il 56%, atei il 15%.  Nel Nord Italia i giovani che si dichiarano cattolici sono sotto il 50%. La famiglia resta per il 53% dei giovani importante in merito alla propria religiosità.

Vi è una parte di giovani, il 6,4%, che si dichiara cristiano, ma senza riconoscersi in una specifica confessione. Appare invece ancora numericamente marginale l’appartenenza alla Chiesa ortodossa e alle Chiese riformate (2,4%), alle cosiddette religioni orientali (0,7%), alle altre religioni monoteiste (1,4%). Per quest’ultima appartenenza però, in ragione dei processi migratori, sembra logico attendersi nei prossimi anni una crescita.

Il genere risulta avere ancora una forte incidenza nel campo del sentimento religioso e dell’appartenenza ad un credo. Le ragazze che hanno dichiarato di credere nella religione cattolica sono infatti oltre il 10% in più dei ragazzi, così come le giovani che si dichiarano non credenti sono il 6% in meno dei coetanei di sesso maschile.

 

Ascolta intervista

 

 

Giovannini, 650 mila giovani senza lavoro: “Numeri da aggredire”

I giovani disoccupati italiani sono “650 mila: un numero aggredibile”: lo ha affermato il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, ribadendo la differenza per cui “non è vero che il 40% dei giovani italiani è senza lavoro, perché è l’l’11% dei giovani italiani che è senza lavoro, il 40% dei giovani attivi”.

 

Il ministro ribadisce comunque che ”stiamo lavorando seriamente per modificare quello che serve sulla legge che regola il mercato del lavoro per trovare incentivi per stimolare l’occupazione, in particolare quella giovanile, rivedere gli ammortizzatori, anche quelli in deroga, dare una forza maggiore ai sistemi per l’impiego perche’ – sottolinea – se non riusciamo a migliorare la nostra formazione e soprattutto l’orientamento dei giovani verso l’impiego, non possiamo avere ammortizzatori sociali che durano in eterno”. Su questo si sta lavorando ”oltre ad una serie di semplificazioni”.

 

E anche dai dati del Rapporto Giovani emerge come la crisi economica stia aggravando la condizione dei giovani italiani peggiorando le opportunità di trovare un’occupazione, di stabilizzare il percorso lavorativo, di realizzare le condizioni per conquistare una propria autonomia dalla famiglia di origine e di formare un proprio nucleo familiare.
La disoccupazione giovanile ha raggiunto negli ultimi mesi livelli record. Inoltre l’Italia è tra i Paesi europei con più basso tasso di occupazione giovanile e più elevata quota di Neet, ovvero di under 30 che non studiano e non lavorano.

 

 

Non si vince come Paese con i giovani solo in difesa

di Alessandro Rosina

Linkiesta

 

E’ ora che i giovani tornino all’attacco in questo paese.  Sinora sono rimasti passivamente a subire lo scadimento delle opportunità e  delle proprie condizioni di vita, difendendosi dall’eccessivo impoverimento  grazie all’aiuto della famiglia di origine. Le nuove generazioni  italiane non sono protagoniste, ma solo argomento di preoccupazione per  i genitori e di discussione nel dibattito pubblico. Si parla di loro, ma dove le  cose si decidono e accadono non ci sono. Rendere i giovani attivi e  intraprendenti è la cosa che peggio ci è riuscita negli ultimi anni e  il record di under 30 che non studiano e non lavorano (i cosiddetti Neet) è il  più evidente risultato di decenni di politiche inefficaci nei confronti  dell’occupazione giovanile. Cos’altro deve succedere per capirlo e per  convincerci a mutare completamente rotta? Noi continuiamo a pensare che  il problema sia quello di trovare una qualche occupazione ai giovani, anziché  mettere le nuove generazioni al centro di un solido progetto di crescita in  sintonia con le potenzialità del paese. Detto in altre parole, ridurre  di per sé la disoccupazione serve a poco se non si creano opportunità  vere. Supponiamo che l’obiettivo sia di dimezzare la disoccupazione  giovanile attuale. Questo significa riportarla al 20%, che era il livello  pre-crisi. Non certo un successo visto che in tale periodo l’Italia arrancava  rispetto al resto d’Europa con le nuove generazioni lasciate ai margini (si veda  ad esempio: “Com’è difficile essere giovani in Italia”, scritto nel  2006!). L’errore in cui continuiamo a cadere, governo compreso, è  quello di pensare all’occupazione dei giovani come “emergenza” mentre è  una “persistenza” (e come tale va “aggredita”, ministro Giovannini). E’ vero che  la crisi ha colpito di più i giovani, ma è altrettano vero che non è  stata la crisi ad escludere le nuove generazioni dai processi decisionali e di  sviluppo dell’Italia. L’obiettivo che tutti – il Governo in primis  – dovremmo porci come priorità è quello di intraprendere un percorso di crescita  con alla base un circuito virtuoso di mutuo stimolo tra valorizzazione della  capacità di fare e innovare dei giovani, da un lato, e sviluppo economico e  sociale, dall’altro. Nulla di tutto questo si è visto da quando siamo entrati  nel XXI secolo e nulla di solido e coerente in questa direzione sembra sia stato  messo in cantiere. L’unica cosa che è cambiata è stato lo spirito di  adattamento dei giovani stessi. Consapevoli che il rischio di rimanere  a lungo inattivi lo pagheranno salato nei prossimi anni, hanno deciso di  accontentarsi e di ritarare al ribasso le proprie aspettative. Secondo i  dati di una recente indagine (www.rapportogiovani.it): oltre l’80% svolge un lavoro  che non considera pienamente soddisfacente; un giovane su due si  accontenta di un salario sensibilmente più basso rispetto a quello che considera  adeguato; una quota molto alta, pari al 47% si adatta a svolgere un’attività che  considera non del tutto coerente con il proprio percorso di  studi. Pur di non rimanere in panchina i giovani hanno deciso di  giocare in difesa, anche quando avrebbero tutti i numeri per giocare in  attacco e far vincere la squadra. Ma i ruoli più avanzati sono  difficilmente accessibili: sia perché chi li occupa non si rimette in  discussione, sia per il tipo di modulo adottato dal sistema Italia (più chiuso a  catenaccio nella propria metà campo che proiettato in avanti). Se è  questo quanto questo paese continua ad offrire, le nuove generazioni devono però  decidere se accettareun ruolo arretrato o rivoluzionare gli schemi.  Nulla di facile e di scontato, ma l’alternativa è rassegnarsi a giocare male in  una squadra che cerca solo di non perdere troppo e non incassare troppi gol.

L’alternativa, sempre più presa in considerazione, è un futuro  altrove. E finirà così che giovani italiani vincenti continueranno ad  esserci, ma giocheranno nelle nazionali dei paesi concorrenti. Fuor di metafora,  fra non molti anni potrà allora diventare del tutto normale acquistare  dall’estero beni e servizi innovativi ideati da giovani italiani  espatriati. E’ questo il futuro che ci meritiamo? Forse si. Ed è senz’altro quello che accadrà se il Governo italiano continuerà a pensare  ai giovani solo come ad una emergenza.

 

Ocse lancia allarme su disoccupazione giovanile in Italia

Nuovo allarme sulla disoccupazione giovanile in Italia. A lanciarlo è stata l’Ocse, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo, che ha pubblicato un rapporto e un piano di azione sul lavoro per i giovani sotto i 25 anni. Ebbene, dallo studio emerge come l’Italia sia quarta nella classifica dei Paesi Ocse con maggiore disoccupazione giovanile, con un tasso superiore al 38% nel primo trimestre dell’anno.

 

Peggio del nostro paese fanno solo la Grecia e la Spagna (dove si supera il 50%) e il Portogallo, con un tasso del 40%. Tra gli under 25 senza lavoro e fuori dai percorsi di educazione e formazione (i cosiddetti Neet), l’11% è non cerca neanche più un lavoro perché pensa che non ce ne sia.

 

“Il numero dei giovani senza lavoro nell’area Ocse – si legge nel rapporto – è quasi un terzo in più rispetto al 2007 e destinato a salire ancora nei mesi a venire”.

Stagisti: 9 su 10 tornano a casa

di Antonio Sciotto

L’Espresso.it

 

La vita degli stagisti è veramente grama, ancor di più in tempi di crisi. Sono molte le imprese, e gli uffici pubblici, che per risparmiare si assicurano giovani colti, spesso laureati, e soprattutto dotati di volontà e voglia di fare, visto il miraggio di una assunzione: e che in questo modo riescono a evitare dipendenti a tempo indeterminato, o anche soltanto stagionali, collaboratori e partite Iva che comunque costano parecchio di più.

Tra l’altro forse pochi ancora lo sanno, ma lo stage non è più riservato soltanto ai giovani: causa forse anche l’emergenza della recessione, la normativa ha esteso questa possibilità a tutte le età, includendo disoccupati, cassintegrati e lavoratori in mobilità. Nuove opportunità o ulteriori illusioni? C’è da essere molto cauti: non è affatto detto, infatti, che alla fine del tirocinio si venga assunti.
Secondo l’ultimo studio di Excelsior/Unioncamere (del 2012) soltanto il 10,6 per cento dei tirocinanti entra a far parte dell’organico aziendale. Per tutti gli altri, quando va bene, una pacca sulle spalle e un «arrivederci e grazie, forse ci rivedremo».

Sempre secondo la stessa inchiesta, sono circa 307 mila gli stage attivati ogni anno in Italia, ma soltanto nelle imprese: per gli uffici pubblici non c’è un dato certo, e si può citare la stima della ‘Repubblica degli stagisti‘, sito di riferimento della categoria, che ipotizza tra i 150 mila e i 200 mila tirocini attivati. Nota dolente sopra tutte: la retribuzione. Non esiste ancora una legge che la imponga, e così nella gran parte dei casi il lavoro è del tutto gratuito, o coperto da piccoli forfait che si aggirano sui 300-400 euro mensili, fino a 600 nei casi più fortunati.

 

Certo c’è un abisso tra il caso raccontato proprio alla ‘Repubblica degli Stagisti’ da un gruppo di ragazzi assoldati presso una nota casa editrice romana che produce enciclopedie – lavoro sodo, senza alcuna vera formazione, per zero euro al mese – e l’offerta attivata dall’Agenzia europea del farmaco di Londra che sullo stesso sito promuove addirittura stage a 1.600 euro al mese, paga superiore a quella di tanti operai e impiegati italiani. Ma quest’ultima sembra essere davvero una eccezione.

Il racconto di Marta, laureata in lettere con 110 e lode e presa a lavorare per tre mesi nella casa editrice, sembra purtroppo rispecchiare molto di più lo sconfortante panorama italiano. Innanzitutto, appunto, zero retribuzione. E poi, il tipico specchietto per le allodole, la possibile assunzione a fine percorso: «Mi venne spiegato – racconta la ragazza – che la casa editrice aveva firmato un contratto ‘epocale’ con la Microsoft, per realizzare testi scolastici e supporti multimediali. Un lavoro lungo almeno due anni, con l’eventualità di un futuro contratto a progetto».

Di formazione, però, neanche l’ombra: «Andavo alla sede soltanto per ritirare il materiale, poi facevo tutto a casa, da sola – dice Marta – E quando non mi facevo sentire, mi arrivavano mail minatorie dalla responsabile: ‘Ti rinnovo la domanda: continuiamo o ci salutiamo?’». Scadenze, obiettivi e risultati che non dovrebbero far parte di uno stage. Infine, a compito ultimato, ben 300 pagine lavorate, la doccia fredda: nessuna assunzione. E il paradosso è che quello stesso anno la casa editrice ha impiegato tra i 15 e i 20 stagisti a fronte di 12 dipendenti stabili. Un chiaro caso di lavoro gratuito ‘usa e getta’.
Proprio per chiedere ordine in un settore che ancora oggi è un far west, il sindacato si mobilita: per la giornata del 29 maggio la Cgil ha organizzato una serie di manifestazioni e incontri con le Regioni – le istituzioni deputate a normare gli stage – che mirano a rivendicare regole e rispetto.

«Siamo nell’assoluta incertezza normativa, e per questo di fatto le imprese e gli uffici pubblici si regolano a modo proprio, scivolando molto spesso nell’abuso», spiega Ilaria Lani, responsabile Politiche giovanili della Cgil.
«Per il momento l’unica legge nazionale sul tema è il pacchetto Treu del 1997, ma la riforma del titolo V della Costituzione, diverse sentenze e infine un pronunciamento della Corte costituzionale hanno stabilito che devono essere le Regioni a legiferare. Così un accordo Stato-Regioni del gennaio scorso stabilisce che entro questo luglio si dispongano leggi e regolamenti, ma per il momento si sono mosse soltanto Piemonte e Veneto».

 

I giovani senza lavoro e il futuro che si meritano

di Alessandro Rosina

 

Neodemos.it

Ridaremo un futuro ai giovani” ha affermato il premier Enrico Letta. La stessa frase era stata usata da Michel Martone, quando era viceministro al lavoro del Governo Monti e in modo del tutto analogo (insistendo sul “diritto al futuro” dei giovani) si era espressa Giorgia Meloni in qualità di Ministro della Gioventù nell’ultimo Governo Berlusconi.

 

Le promesse e i fatti

Insomma, dai politici non sono mancate le promesse di miglioramento della condizione delle nuove generazioni. A mancare continuano però ad essere i fatti, a giudicare dalla persistente difficoltà dei giovani sia nel trovare e creare lavoro, che, conseguentemente, nell’avviare un proprio progetto di vita autonoma.

 

Mentre nel resto d’Europa a lavorare è la gran parte di chi ha tra i 18 e i 29 anni, da noi è solo una minoranza a farlo: il tasso di occupazione era il 48% nel 2005 ed è sceso nel 2012 sotto il 40%. Anche il tasso maschile si è inabissato sotto la soglia del 50% e si trova attualmente vicino al 45% (al 33% quello femminile). Oltre 10 punti sotto la media europea.

 

Si accentua quindi ulteriormente il paradosso di un’Italia che non solo ha meno giovani rispetto agli altri paesi avanzati, ma li rende anche meno attivi e partecipativi nella società e nel mercato del lavoro (di conseguenza più passivamente dipendenti economicamente dai genitori).

 

Non si vince con i giovani solo in difesa

Ma per capire come questa condizione stia incidendo sulla vita dei giovani non bastano gli usuali indicatori sui livelli di disoccupazione, è cruciale avere un quadro più ampio e ricco sulle loro caratteristiche, su come percepiscono la situazione in cui si trovano e sulle strategie adottate per farvi fronte. Un’esigenza conoscitiva a cui tenta di dar risposta l’indagine “Rapporto giovani” (www.rapportogiovani.it) promossa dall’Istituto Toniolo in collaborazione con la Fondazione Cariplo. La rilevazione, realizzata tecnicamente dall’Ipsos, è formata da un campione rappresentativo a livello nazionale di 9000 persone tra i 18 e i 29 anni. E’ inoltre impostata in modo da seguire un panel di intervistati per un periodo di cinque anni.

 

I dati della prima wave del 2012 mostrano come la crisi non abbia (per ora) intaccato il desiderio di poter fare in prospettiva un lavoro pienamente appagante e nel quale autorealizzarsi (a cui mira oltre il 90% dei giovani), li ha però resi concreti nel presente e disponibili a confrontarsi con quello che attualmente il mercato offre. Tutt’altro che bamboccioni e schizzinosi: oltre l’80% svolge un lavoro che non considera pienamente soddisfacente. Più nello specifico, un giovane su due si accontenta di un salario sensibilmente più basso rispetto a quello che considera adeguato. Inoltre, una quota molto alta, pari al 47% si adatta a svolgere un’attività che considera non del tutto coerente con il proprio percorso di studi.

 

Fanno bene i giovani a migliorare lo spirito di adattamento al poco (e spesso male) che viene a loro offerto, ma non è certo costringendo le nuove generazioni a dare di meno rispetto a quanto potrebbero e a rivedere al ribasso le proprie aspirazioni di realizzazione professionale e di vita che l’Italia può tornare a crescere ed essere competitiva.

 

Forse la politica finora ha fallito anche perché ha sbagliato impostazione: non si tratta di “restituire un futuro” di un qualche tipo ai giovani, ma di mettere nel presente le nuove generazioni nelle condizioni di costruirselo da sole il futuro: il proprio e quello dell’intero paese. L’alternativa, sempre più presa in considerazione, è un futuro altrove.

 

 

Radio Marconi, intervista al professor Rosina sui dati del Rapporto Giovani

Radio Marconi ha intervistato il professor Alessandro Rosina, docente di Demografia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, sui dati del Rapporto Giovani.

 

Né bamboccioni, né schizzinosi: i giovani italiani hanno assunto un atteggiamento pragmatico, non rassegnandosi e scendendo anche a compromessi rispetto a ciò che il mercato del lavoro offre attualmente- ha spiegato Rosina- da un altro lato cercano un lavoro che consenta loro di mettere le basi per realizzare il proprio percorso di vita, mantenendo costante comunque l’ambizione di raggiungere in prospettiva obiettivi importanti”.

 

Altro problema riguarda la bassa stabilità del lavoro, con il ruolo sempre più importante della famiglia come ammortizzatore sociale: “Non si è  innestato in Italia un circuito virtuoso che possa portare a valorizzare i giovani e il merito: sviluppo del paese e prospettive per i giovani devono andare pertanto di pari passo”.

 

Qui l’intervista completa andata in onda su Radio Marconi

Istat: oltre 2 mln giovani non studiano nè lavorano

Sono oltre due milioni (2.250.000) i Neet in Italia, cioe’ i giovani tra i 25 e i 29 anni che non lavorano e non studiano, e in molti casi si tratta di mamme. Lo rileva il rapporto annuale dell’Istat secondo l’occupazione e’ in calo soprattutto per i ragazzi under 30. L’Italia ha la quota di Neet piu’ alta d’Europa (23,9%). Nel solo 2012 il numero di Neet e’ ulteriormente aumentato di 95 mila unita’ (4,4%) mentre dal 2008 l’incremento e’ stato del 21,1% (+391mila giovani). I Neet sono piu’ diffusi tra le donne, lo sono molte casalinghe italiane con figli nelle regioni del Sud e le straniere con figli al Centro-Nord, soprattutto marocchine e albanesi. Tra i giovani che vivono ancora in famiglia, l’incidenza e’ piu’ alta tra gli uomini.

 

Lo segnala l’ Istat nel suo Rapporto Annuale 2013 – La situazione del Paese,  incentrato sulla situazione economica delle famiglie e dell’Italia.

 

 

 

 

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