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Il boom degli under 35 che scelgono di fare gli agricoltori

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I giovani tornano al lavoro nei campi. Se ne parla già da qualche anno, complice la crisi economica che ha costretto molti a reinventarsi, ma un fattore importante è dato anche dalla nuova attenzione di cui gode tutta la filiera agroalimentare. In tempi di bio, slow food e chilometro zero, il cibo e il modo in cui viene prodotto suscitano un interesse che fino a dieci anni fa non era nemmeno pensabile. Lo confermano gli ultimi dati di Coldiretti: il 2015 ha registrato un aumento record del 12% dei giovani under 35 occupati in agricoltura.

Lo studio è stato presentato sabato 18 luglio in occasione dell’Assemblea nazionale Coldiretti, che si è tenuta a Expo negli spazi di Palazzo Italia. In base ai dati diffusi dall’associazione, più di due giovani italiani su tre (il 68% del totale) “sognano” di lavorare d’estate in campagna, partecipando alla raccolta della frutta o alla vendemmia. È stata fatta una stima per l’estate 2015, che potrebbe dare lavoro a circa 200mila under 35. Un trend di questo tipo ha ricadute significative per l’intero settore, dove la componente giovanile fa da traino: attualmente si registra un incremento record del 6,2% per numero di occupati.

Un’estate nei campi rappresenta per i giovani un’occasione per approcciarsi al mondo del lavoro, ma anche per trascorrere del tempo a contatto con la natura. È un modo per osservare da vicino “come nascono” quelle eccellenze che dal nostro Paese arrivano sulle tavole di tutto il mondo. Per tutte queste ragioni, si cerca di agevolare esperienze del genere anche dal punto di visto burocratico. Dal primo giugno e al 30 settembre, infatti, i giovani lavoratori dai 16 ai 25 anni regolarmente iscritti a un ciclo di studi potranno essere remunerati con i voucher, i buoni lavoro che comprendono la copertura assicurativa e previdenziale e non sono soggetti a ritenute fiscali. Non solo, per favorire l’incontro tra domanda e offerta, Coldiretti ha varato la prima banca dati autorizzata dal Ministero del Lavoro: si chiama Jobincountry e raccoglie gli annunci di aziende agricole in cerca di manodopera.

Se consideriamo la fotografia dei giovani italiani scattata dal Rapporto Giovani 2014, gli occupati nel settore agricolo sono al momento il 3,2% del totale. In compenso, il 40,3% degli intervistati ha indicato come possibile professione per il futuro quella dell’imprenditore agricolo. È stato poi chiesto agli intervistati quale impiego consiglierebbero a un amico in una lista di lavori con pari stipendio: quello in un’impresa agricola è risultato al quarto posto, con il 7,8% delle preferenze.

Durante l’Assemblea di Coldiretti, il presidente dell’associazione, Roberto Moncalvo, ha sottolineato l’importanza di promuovere l’occupazione nel settore agricolo, che ha definito “lo zoccolo duro” di tutta la filiera agroalimentare. Questa, infatti, rappresenta uno dei fiori all’occhiello del Made in Italy, e nell’anno di Expo è bene ricordarlo ancora una volta.

91% GIOVANI DEL CENTRO VEDE POCHE OPPORTUNITA’, 37% PREFERISCE ATTIVITA’ IN PROPRIO A LAVORO DIPENDENTE

La crisi economia imperversa. L’incertezza diffusa si ripercuote inevitabilmente sulle aspettative dei giovani. In particolare nel centro Italia risulta ampio il divario tra voglia di scommettere su se stessi e prospettive attuali. Il 91% di loro, infatti, considera limitate o scarse le opportunità lavorative.

 

Meglio allora sfruttare le proprie competenze e la voglia di mettersi in gioco per diventare imprenditori di se stessi. E’ così che nelle preferenze il lavoro in proprio, ha superato quello fisso. Il primo viene indicato dal 37% degli intervistati, il secondo dal 26%, con un ulteriore 37% a cui vanno bene entrambi.

 

E’ quanto emerge dall’indagine sul mondo giovanile del Rapporto Giovani: indagine promossa ed elaborata a partire da un panel di 5000 giovani tra i 19 e i 31 anni dall’Istituto Giuseppe Toniolo in collaborazione con l’Università Cattolica e con il sostegno di Fondazione Cariplo e di Intesa Sanpaolo.

Nonostante le incertezze sul proprio futuro, i giovani del centro Italia sono quelli che maggiormente credono nelle istituzioni e nella politica. Il 15%, infatti, dà un voto positivo ai partiti (contro l’11% della media nazionale), il 33% all’Unione Europea (contro 29% media italiana) e il 43% al sistema scolastico (40% media Italiana).

Più alti tendono ad essere anche i valori di impegno civile. Rispetto al Servizio civile nazionale che i Governo progetta di rilanciare, l’affermazione “stimolare i giovani a diventare cittadini attivi” e “rafforzare il senso di appartenenza alla comunità” raccoglie molti più consensi nel Centro rispetto alle altre ripartizioni geografiche. Il 64% dei giovani del centro considera il servizio civile un modo per stimolare a diventare cittadini attivi e intraprendenti, il 63,2% lo vede come un mezzo per aiutare i giovani a crescere come persone, il 61% pensa sia un’occasione per arricchire conoscenze e competenze utili per la vita sociale e lavorativa.

“La condizione giovanile in Umbria, in Italia e in Europa” sarà oggetto di dibattito ad Umbrò (Perugia) domani, Sabato 4 Luglio 2015, dalle 17 alle 19 in occasione di “Europa Creativa”, giornata di workshop organizzata da Perugia EYC2018 e del FRGU, in collaborazione con L’Umbria che Spacca.

Interverranno: Alessandro Rosina, docente di demografia e statistica sociale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e tra i curatori del Rapporto Giovani, Gabriele Biccini, portavoce del Forum Regionale dei Giovani dell’Umbria e Giuseppe Failla, portavoce del Forum Nazionale dei Giovani. A partire dai dati del Rapporto Giovani si rifletterà sul mondo giovanile cercando di elaborare delle risposte concrete d’intervento sul territorio.

“I giovani del centro Italia – dichiara Alessandro Rosina, fra i curatori del Rapporto Giovani – non vogliono rimanere fermi, nonostante le difficoltà del presente, si adattano ma non rinunciano ai propri obiettivi. A fronte della propria disponibilità all’impegno, cresciuta con la crisi, c’è però l’amara constatazione che l’Italia offra attualmente poche possibilità di trovare lavoro adeguato a cui corrisponde un aumento di chi valuta l’opzione estero. I valori civici, la voglia di spendersi in modo positivo nella propria comunità, l’intraprendenza, fanno dei giovani del centro una risorsa particolarmente preziosa per alimentare un nuovo processo di sviluppo che riparta dal protagonismo positivo della nuove generazioni”.

 

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“Io sto con la sposa”: la parola al regista

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di Francesco Mattana

Io sto con la sposa è un film davvero unico nel suo genere. Racconta di un poeta palestinese siriano e di un giornalista italiano col cuore grande, che due anni fa decisero di aiutare cinque palestinesi e siriani in fuga dalla guerra a proseguire il loro viaggio clandestino, da Milano verso la Svezia. Bisognava però trovare una soluzione per non venire arrestati come contrabbandieri. Con buona dose di fantasia inscenarono un finto matrimonio, perché nessun poliziotto di frontiera avrebbe mai trovato il coraggio di chiedere i documenti a una donna con l’abito nuziale. Una volta individuati i coraggiosi disposti a vestire i panni della sposa e degli invitati al matrimonio, cominciò una lunga, rocambolesca peregrinazione per l’Europa, un “viaggio in maschera” lungo quattro giorni e tremila chilometri.

Una follia, forse, ma orchestrata a fin di bene. Viceversa, il comportamento delle istituzioni europee che negano l’accoglienza ai migranti in cerca di pace è, secondo i protagonisti di questo stravagante road movie, una follia pericolosissima.

Era richiesta una bella dose di intraprendenza per coinvolgersi in un’avventura simile. Ma la fortuna, come è noto, aiuta gli audaci; dunque, non solo la missione è andata a buon fine, ma anche la campagna di raccolta fondi per finanziare le spese di produzione della pellicola si è rivelata un successo, al di sopra di qualunque più rosea aspettativa. Grazie alla generosità dei tanti benefattori Io sto con la sposa è uscito regolarmente nelle sale e ha ottenuto anche un discreto successo. Ma soprattutto ha trovato accoglienza alla Mostra di Venezia, nella sezione Orizzonti, riscuotendo la simpatia e l’ammirazione degli spettatori della prestigiosa rassegna cinematografica.

Una grande soddisfazione per gli autori Gabriele Del Grande, Khaled Soliman Al Nassiry e Antonio Augugliaro. Gabriele Del Grande e Antonio Augulgiaro, ospiti in Cattolica lo scorso 15 maggio nella giornata conclusiva del Concorso per le scuole VirtùALmente, hanno raccontato la genesi e l’evoluzione del film a una platea incuriosita di studenti delle superiori. Ma soprattutto, ci tenevano a mostrare le potenzialità enormi del crowdfunding, che loro hanno saputo sfruttare nel migliore dei modi.

Abbiamo intervistato Augugliaro, per approfondire alcuni aspetti non emersi nel corso della chiacchierata coi ragazzi. A differenza di Khaled Soliman Al Nassiry – poeta, scrittore e grafico – e Gabriele Del Grande– giornalista, la cui attività principale è legata al blog Fortress Europe, in cui raccoglie e cataloga tutti gli eventi riguardanti le morti e i naufragi dei migranti africani nel  Mediterraneo nel tentativo di raggiungere l’Europa – Antonio Augugliaro fa il regista di professione, ed è molto attivo sulla scena cinematografica indipendente milanese.

“Io sto con la sposa” è un film originale, ma ancor più particolare è stata l’idea di aggirare i controlli simulando un finto matrimonio. Nel corso della lunga traversata fino alla Svezia tra di voi ha prevalso la paura o l’entusiasmo?
Don Lorenzo Milani diceva che l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni. Conformemente agli insegnamenti del sacerdote di Barbiana, abbiamo deciso di rispondere alla nostra legge morale prima che alle regole canonizzate dal diritto. Certo, è stato un rischio. Ma qual è il pericolo più grande? Finire in prigione per una norma ingiusta o rimanere immobili davanti all’erosione della dignità di esseri umani? “Io sto con la sposa” è un film che nasce prima di tutto come atto di disobbedienza civile verso quel sistema che governa in Europa il flusso delle migrazioni, che decide chi può entrare oppure no in un territorio. In fondo i legislatori possono sbagliare, è la storia che ce lo insegna, basti pensare alle leggi razziali o al divieto di voto per le donne. Prima dell’introduzione dei visti nell’88 e dei flussi migratori, la gente si spostava liberamente e legalmente tra l’Africa e l’Europa. Nessun morto. Nessun contrabbandiere. Nessuna speculazione politica su presunte invasioni. Oggi invece, anche chi prova a scappare da una guerra tremenda come quella siriana deve faticare per essere accolto nel Vecchio Continente. Questo sistema ha generato più di 20.000 morti nel Mediterraneo dall’88 ad oggi (fonte Fortress Europe), tutte persone alle quali è stato negato il visto per un ingresso regolare in Europa. La sensazione è di trovarsi davanti ad un bollettino di guerra e non ai risultati di una normativa giusta e legittima. Quale legge può davvero impedire la mobilità di un individuo? Lo abbiamo visto in questi anni. Le persone viaggiano comunque, sfidando le situazioni più avverse e pericolose pur di tentare la via della salvezza.

La realizzazione di questa pellicola ti ha consentito di conoscere l’Europa delle istituzioni e della gente comune. Secondo te i cittadini europei, in linea generale, mostrano un atteggiamento favorevole od ostile nei confronti dei migranti?
Durante il viaggio tra Milano e Stoccolma abbiamo incontrato molti cittadini europei che hanno offerto il loro piccolo aiuto affinché la nostra impresa riuscisse al meglio. Qualcuno ci ha ospitato nella propria casa, qualcun altro ci ha offerto da mangiare e qualcun altro ancora ha indicato la strada migliore da percorrere. Nessuno di loro aveva un atteggiamento ostile nei confronti delle persone che portavamo con noi e che erano in fuga dalla guerra. La mia comunque, va detto, è stata sicuramente una visione parziale. L’Europa è grande e purtroppo non tutti percepiscono il fenomeno migratorio come un’opportunità, in tanti lo vivono piuttosto come una minaccia. Qualche volta mi è capitato di parlare con qualcuno che non la pensa come me in materia di migrazione, ma in quei casi mi sono reso conto che la loro posizione non era politica. E nemmeno razzista. Piuttosto, il risultato di una profonda incompetenza sull’argomento, di una mancanza totale di curiosità e voglia di approfondire. Come sempre accade, l’ignoranza porta con sé la paura. E la paura genera a sua volta le reazioni più sconclusionate. Per quanto riguarda le istituzioni, invece, non credo ci siano scusanti. In tutti questi anni l’Europa ha semplicemente girato la faccia dall’altra parte, generando grandi diseguaglianze e malessere sociale.

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Questo viaggio è stato senz’altro un’esperienza di crescita fondamentale. Dicci qual è il regalo più grande che hai ricevuto dai protagonisti di questa storia, l’eredità morale di cui sempre farai tesoro d’ora in poi.
La cosa che più mi è rimasta è la bellezza delle persone, dei cinque palestinesi e siriani che abbiamo portato in Svezia, degli amici che ci hanno supportato in questa folle avventura. E di tutti quelli che ci hanno aperto le loro case, ospitandoci per una notte anche se non ci avevano mai visti prima. Nel nostro film mostriamo come sarebbe bello il mondo se non ci fossero disuguaglianze, se fossimo tutti solidali. In fondo la bellezza è l’unico antidoto contro il male.

Ti ha stupito la risposta consistente che avete ottenuto col “crowdfunding”? Qual è la motivazione, secondo te, che ha spinto tante persone diverse a finanziare il vostro progetto?
Quando decidemmo di avviare una raccolta fondi online, nessuno di noi ci sperava veramente. Sapevamo degli altri progetti italiani che avevano raccolto cifre molto basse: cinquemila, massimo diecimila euro. Invece per noi, fortunatamente, le cose sono andate diversamente. Durante la prima settimana di crowdfunding raccogliemmo già quasi 10.000 euro. Per noi è stata una sorpresa incredibile oltre che una gioia immensa, sia perché siamo riusciti in questo modo a pagare tutti i nostri collaboratori e sia perché abbiamo creato una grande comunità in rete e nel mondo reale che la pensa come noi in tema di diritto di asilo e migrazione. Il motivo esatto per cui il nostro progetto ha affascinato un pubblico così ampio non lo saprei individuare con precisione. Secondo me in gioco ci sono tanti elementi. La bellezza della nostra storia innanzitutto, un racconto positivo e gioioso capace di far sognare. Alla fine del film, una volta  usciti dalla sala cinematografica, gli spettatori non rimangono pervasi da una sensazione di oppressione e impotenza, bensì vengono presi dalla voglia di fare qualcosa, e maturano la consapevolezza che per cambiare il mondo bisogna prima di tutto cambiare noi stessi. Sono molte le persone che dopo aver visto “Io sto con la sposa” hanno deciso di attivarsi nel loro piccolo. Qualcuno ha fatto un gruppo su Facebook organizzando una prima accoglienza “cittadina” rivolta a quelle persone che arrivano in Stazione Centrale a Milano e vi soggiornano per qualche tempo (My land my people per esempio), oppure qualcun altro ha organizzato dei flash mob utilizzando l’abito nuziale come metafora di un mondo più giusto. Sostenere la nostra pellicola per molti ha significato la realizzazione di un sogno, quello di un’Europa più solidale e più giusta nei confronti di tutte quelle persone che fuggono dalle emergenze del loro Paese.

Cosa bolle in pentola dopo “Io sto con la sposa”? Lo consideri un punto di partenza per altri progetti artistici in cui potrai mettere a frutto la tua sensibilità verso il sociale?
È difficile per me parlare di progetti futuri in questo momento, perché “Io sto con la sposa” mi richiede ancora molti sforzi. Sta partendo un grande tour all’estero, dove il film sta già raccogliendo molti consensi. Stiamo anche preparando l’uscita del dvd che dovrebbe avvenire a ottobre. A dire il vero i progetti non mancano, ma per ora rimangono sulla carta in attesa di tempi più calmi.

7X1: intervista a Luciano Gualzetti su Expo e la fame nel mondo

gualzettiLuciano Gualzetti, vice commissario del Padiglione della Santa Sede e responsabile Caritas in Expo, è stato ospite di “7×1″, la rubrica a cura dell’Istituto Toniolo in onda su Radio Marconi il sanato alle 18 e 30.

Con Gualzetti abbiamo parlato di Expo e la sua eredità, del problema ancora forte della fame del mondo, di volontariato e di come Expo possa effettivamente creare nuove sinergie.

“7 per uno” è la rubrica curata dal Toniolo su Radio Marconi in cui, ogni sabato, un un ospite su temi di attualità, con un’attenzione particolare alle nuove generazioni.

> Clicca qui per riascoltare la puntata di 7×1 con Luciano Gualzetti

Fuori dalla Calabria: l’emigrazione giovanile

Il Rapporto Giovani 2014 sarà presentato da Alessandro Rosina (ordinario di Demografia e Statistica Sociale, direttore LSA dell’Università Cattolica di Milano)a Reggio Calabria il 12 giugno alle 11.00 nella Sala Giuditta Levato presso il Consiglio regionale della Calabria.

 

Parteciperanno Sebi Romeo e Nicola Irto (Consiglio regionale della Calabria) e interverranno Mons. Giuseppe Fiorini Morosini (Arcivescovo della Diocesi Reggio-Bova), Antonino Castorina (ANCI Giovane Calabria), Giuseppe Provenzano (Ricercatore Svimez) .

 

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7X1: intervista al Senatore Mario Monti

mariomontiIl Senatore Mario Monti, Presidente del Consiglio tra il 2011 e il 2013, è stato ospite dell’Istituto Toniolo per la rubrica, in onda su Radio Marconi il sabato alle 18 e 30, “7X1”.

Con Monti abbiamo parlato di disoccupazione giovanile, dell’impegno dell’Europa per le politiche occupazionali. Il senatore ha commentato i dati del Rapporto Giovani circa il “gradimento” e l’affezione delle nuove generazioni verso le istituzioni.

“7 per uno” è la rubrica curata dal Toniolo su Radio Marconi in cui, ogni sabato, un un ospite su temi di attualità, con un’attenzione particolare alle nuove generazioni.

> Clicca qui per riascoltare la puntata di 7×1 con Mario Monti

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No, in Australia l’emigrazione non è un pranzo di gala

[© StephenMitchell / CC BY-NC-ND 2.0]
[© StephenMitchell / CC BY-NC-ND 2.0]

[© StephenMitchell / CC BY-NC-ND 2.0]
StephenMitchell / CC BY-NC-ND 2.0]
Come noto, è cambiata tra i giovani la percezione dell’emigrazione. Salvo rare eccezioni, nessuno dei nostri connazionali che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento sbarcava a Ellis Island si metteva in marcia con grande entusiasmo: lo stomaco vuoto era il motore principale che spingeva a impelagarsi –in senso letterale, perché si trattava di una infinita traversata in mare aperto. La realizzazione professionale era un’ambizione che si presentava solo in un secondo tempo, mentre l’urgenza riguardava la sopravvivenza, il tirare a campare in un modo o nell’altro.

Ora le cose per fortuna sono cambiate: l’Europa è in crisi ma in linea generale non è affamata. Anche l’Italia, pur con tutte le sue difficoltà, ha saputo costruire negli anni un sufficiente sistema di welfare state, che può consentire a chiunque di vivere un’esistenza quantomeno dignitosa.

E allora perché i ragazzi spesso vogliono andare oltre la soglia dello Stivale? Perché appunto si tratta di un viaggio di scoperta più che di un’emigrazione, di un rincorrere l’idealità più che la contingenza dei bisogni. Questo stato di cose è ben riassunto nelle pagine del Rapporto Giovani: «La scarsa attenzione ai meriti e alle competenze individuali si nutre della narrazione della “fuga” all’estero, alla ricerca di nuove possibilità di autorealizzazione».

Il 43% degli intervistati è interessato al trasferimento fuori dai confini nazionali. Una percentuale sicuramente significativa.

Ma per ottenere poi che cosa? Questa è la domanda principale da porsi, perché la storia – vera – che vi raccontiamo ora ha tutta l’aria, purtroppo, di non essere un caso isolato. Apprendiamo dal programma televisivo australiano “Four Corners” – la cui inchiesta è stata ripresa dal Corriere della Sera – che molti tra i nostri concittadini, partiti carichi di speranze verso il lato opposto del pianeta, si sono ritrovati a sgobbare in condizioni di schiavitù nelle piantagioni dell’Australia.

Costretti a lavorare con orari estenuanti e sottopagati, diventano anche bersaglio di molestie e perfino di abusi sessuali. Il motivo è che, per ottenere il rinnovo del visto per il secondo anno, gli immigrati temporanei devono dimostrare di aver lavorato per tre mesi nelle zone rurali del Paese. Questa clausola li rende facilmente vulnerabili a ricatti e truffe.

Al momento sono oltre 15.000 i giovani compatrioti presenti nel “Nuovissimo Continente”. «In un solo anno ho raccolto 250 segnalazioni sulle condizioni che si trovano ad affrontare», spiega Mariangela Stagnitti, presidente del Comitato italiani all’estero di Brisbane. «Alcune erano terribili». Come quelle di due ragazze in un’azienda che produceva cipolle rosse: turni dalle sette di sera alle sei del mattino, senza pause neanche per andare in bagno. Il tutto, spesso, senza alcuna copertura assicurativa.

Queste 250 lamentele sono appena una goccia nell’Oceania, perché in pochissimi finora hanno trovato il coraggio di denunciare lo sfruttamento al Dipartimento per l’Immigrazione. «Tanti mi dicono che ormai sono abituati», prosegue la Stagnatti. «Anche in Italia, quando riuscivano a lavorare, lo facevano spesso in nero e sottopagati». Così finiscono per fare quei lavori che gli indigeni non vogliono più fare.

La soluzione che ha in mente il Governo australiano per tamponare questa ferita non è, francamente, un granché: si è limitato ad annunciare la modifica del regolamento, per cui la forma di volontariato nelle aziende agricole in cambio di vitto e alloggio non darà più la possibilità del rinnovo per il secondo anno.

E per quelli che vogliono rimanere in Australia, che si fa? Non resta che convenire su un punto: le spiagge del più grande Paese dell’Oceania sono un paradiso. Le piantagioni, di contro, sono un inferno.

Francesco Mattana

7X1: intervista all’esperto d’arte Willy Montini

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Willy Montini, presentatore televisivo ed esperto d’arte, è stato ospite dell’Istituto Toniolo per la rubrica, in onda su Radio Marconi il sabato alle 18 e 30, “7X1”.

Con Montini si è parlato della Biennale di Venezia, aperta al pubblico sabato 9 maggio dal titolo All The World’s Futures, delle sfide che aspettano l’arte, dei nuovi strumenti di comunicazione, di opportunità lavorative alla luce dei dati del Rapporto Giovani.

“7 per uno” è la rubrica curata dal Toniolo su Radio Marconi in cui, ogni sabato, un un ospite su temi di attualità, con un’attenzione particolare alle nuove generazioni.

 

> Clicca qui per riascoltare la puntata di 7×1 con Willy Montini

Don Falabretti: «Gli adulti aiutino i giovani a sognare e costruire il futuro»

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di Francesco Mattana

Don Michele Falabretti, responsabile dal 2012 del Servizio nazionale per la Pastorale Giovanile della CEI, è l’interlocutore ideale per imbastire una riflessione approfondita sul rapporto tra i giovani e la Chiesa anche alla luce dei dati del Rapporto Giovani. Ordinato sacerdote nel 1993, per undici anni è stato vicario parrocchiale di Osio Sotto, comune della provincia di Bergamo. Chiamato nel 2004 a dirigere l’Ufficio Pastorale dell’Età Evolutiva della diocesi di Bergamo (UPEE), nel 2010 è diventato anche coordinatore regionale di Odielle (Oratori Diocesi Lombarde).

Spieghiamo, in parole semplici, qual è la funzione della Pastorale Giovanile nell’Italia del 2015.
La pastorale giovanile in Italia è una pratica ecclesiale che dura da secoli. L’Ottocento, con i cosiddetti “santi della carità” o “santi sociali”, ha espresso in maniera emblematica questa attenzione che è tipica del nostro Paese. Attenzione che durante il Novecento è andata via via crescendo e strutturandosi, fino a diventare un “luogo” riconosciuto nelle strutture diocesane e negli studi teologici. Insomma: la pastorale giovanile è stata anzitutto un insieme di azioni, poi è diventata un’istituzione soprattutto a partire dal 1993, anno di fondazione del Servizio nazionale per la pastorale giovanile presso la Segreteria generale della CEI. Oggi nella sua versione istituzionale (diocesana o nazionale) ha il compito di sostenere e coordinare le azioni del territorio. Nella sua espressione presso il territorio, ha soprattutto il compito di non lasciar che il percorso dell’iniziazione cristiana si chiuda con la celebrazione della Cresima. Per questo offre percorsi educativi alle giovani generazioni , che aiutino a far maturare il seme di vita cristiana nel cuore di ragazzi ancora molto giovani. Dunque lo sguardo della pastorale giovanile va sui preadolescenti, sugli adolescenti e sui giovani nei loro processi di crescita e maturazione.

Tra le pagine del “Rapporto” promosso dall’Istituto Toniolo, emerge il quadro di una gioventù che fatica a pianificare il proprio futuro, e che preferisce ritrarsi su un presente dalle fondamenta non solide. Sulla base del confronto quotidiano che lei ha coi giovani, ritiene che questi dati rispondano al vero?
Credo di sì, ma l’espressione suona già come una sorta di “accusa” nei confronti dei giovani. Come si fa a pianificare il proprio futuro quando non è dato sapere se si potrà avere un lavoro, comprarsi una casa e dunque immaginarsi legati a una persona o a una famiglia? Anche il dopoguerra in Italia fu un periodo difficile, ma c’erano adulti disposti a spendersi per i propri figli e a far loro posto. Dobbiamo aiutare i giovani a non piangersi addosso e a tornare a sognare una vita bella. Ma come adulti abbiamo il dovere di compiere qualche sforzo in più perché non solo il presente sia più stabile ma anche possibile, e la prospettiva sul domani sia per loro una strada percorribile.

Quali sono i punti di riferimento principali dei giovani con cui lei ha a che fare? Se hanno bisogno di consigli, a chi si rivolgono in prima istanza?
Le statistiche dicono la mamma; e questo sostiene la vecchia tesi del giovane italiano che fatica a tagliare il cordone ombelicale. Però a me sembra che oggi i giovani abbiano molte possibilità di incrociare altre presenze in grado di aiutarli e sostenerli. Una cosa sicura è che si rivolgono a chi sa offrire loro verità, non nelle parole ma nello stile di vita. Forse rincorreranno ancora qualche idolo, però non ne rimangono prigionieri: hanno antenne sofisticate e sanno decriptare anche i segnali più nascosti. Sincerità e coerenza sono le prime condizioni che cercano in un interlocutore.

Come vivono i giovani la fede cattolica? Condivide l’impressione, corroborata dagli studi in materia, che siamo in presenza di una religiosità più “liquida” rispetto al passato?
Sicuramente i giovani oggi sono meno “regolari” nella pratica religiosa. Ma è solo una religiosità diversa. Per certi versi più consapevole: nessuno di loro è “portato” dentro il corso di una pratica vissuta soprattutto dagli altri; quindi chi vive esperienze religiose lo fa con convinzione. Il rischio vero è una religiosità che – poco per volta – viene ritagliata sulla misura dei propri criteri: una religione da supermercato, un fai-da-te del sacro che rischia di tenerli lontani dalla fede come adesione della persona al Vangelo.

Qual è, a suo avviso, la strategia migliore per convincere i Neet – categoria di giovani che non studiano né lavorano – a riprendere in mano la propria vita?
I giovani vogliono tenere in mano la propria vita direi per definizione: ne hanno tutta la carica e lo slancio, ne hanno la forza interiore che li proietta dentro l’esistenza, i sogni nascono con facilità dentro di loro. Credo che chi – giovane – non vuole né studiare né lavorare sia finito in queste situazioni attraversando delusioni e fallimenti. Direi che un primo passo è cercare di capire cosa è successo: ognuno avrà una sua storia da raccontare. E poi due strategie. Dare loro buone motivazioni e giusti stipendi, è una strada. Non mantenerli a oltranza inducendoli a starsene a casa senza fare niente, è l’altra.

Dai dati emerge l’ammirazione dei giovani per Papa Francesco. Quello che colpisce, purtroppo negativamente, è uno stacco enorme tra la fiducia che nutrono verso il Santo Padre e la fiducia verso le altre figure religiose, compresi i parroci. Come si spiega questo gap? In che modo lo si potrà ricucire?
A me pare che questo dato, sicuramente fastidioso per i preti, sia un monito ben preciso. Vorrei vedere i giovani che hanno incontrato un prete dedito alle loro esistenze e sentire cosa dicono. La mancanza di fiducia si spiega solo ammettendo, con molta sincerità, che la dedizione per i giovani non può essere la passione di pochi preti che (come si dice talvolta) “ci sono portati”. La passione educativa sta dentro il ministero che ciascuno di noi ha accettato, quando ha promesso di prendersi cura del popolo di Dio. Il gap dice con chiarezza che mentre il mondo ha preso altre strade, noi preti abbiamo fatto molta fatica a rendercene conto. Pensando di poter conservare quasi naturalmente quella possibilità di essere punti di riferimento: in territori, però, dove la gente passava quasi tutta la vita all’ombra del campanile. Un mondo che si muove è un mondo che trova altri riferimenti: ricucire un rapporto di fiducia passa semplicemente dal tornare ad avere un rapporto con la gente, i suoi problemi, le sue gioie. Senza che questo venga considerato un lavoro di bassa manovalanza…

“Televisione cattiva maestra”, diceva il filosofo Popper. Anche il web, senza dubbio, è un terreno insidioso per i milioni di ragazzi che lo affollano. Le capita di dare consigli ai giovani su come utilizzare al meglio le infinite risorse della rete?
Io non credo che i due meccanismi siano simili. Quando Popper si espresse così, la televisione aveva (con radio e giornali) il monopolio dell’informazione. Il meccanismo del web è diverso. Io sono un bambino degli anni ’70 e ricordo ancora la televisione in bianco e nero con due canali: la crescita è avvenuta un po’ alla volta. Oggi il web appare già come una jungla in cui è difficile districarsi e (a parte qualche video o post virali – che sono o divertenti o strappalacrime) è difficile trovare qualcosa che davvero ti inchiodi nella navigazione e ti rapisca, ti faccia riflettere. Io credo che i giovani siano sempre connessi, che attraverso la rete creino un mondo di relazioni. Ma dubito che tutto questo possa veramente scavare a fondo la loro coscienza. Sicuramente li influenza nei loro processi di crescita, qualche volta li impressiona e li scandalizza. Ma credo che i nativi digitali abbiano più risorse delle generazioni che li hanno preceduti nella capacità di abitare il web. Cosa dovrei dire ai giovani: non guardate in internet le cose brutte? Lo sanno già. Preferisco far girare (condividere, per l’esattezza) ciò che si presenta come bello. Questo stimola tutti a non essere banali, anche solo quando si fanno girare sui social i propri auguri di Natale.

Le sarà capitato senz’altro di confrontarsi con loro anche su temi politici. Come vedono le istituzioni? Prevale un certo disincanto verso il Parlamento?
Quando ero un bambino, pronunciare la parola “politica” significava avere a che fare con qualcosa di pericoloso: se eri un giovane, ancora di più. Oggi tutto questo è scomparso: un giovane in politica è una mosca bianca (se – raramente – ce la fa) oppure è un disadattato, magari mangiato da un sistema che lo usa per dire a tutti “siamo giovani”. Le istituzioni politiche hanno fatto molto per deludere il Paese e ci sono riuscite bene. Forse una ripresa economica (che però non dipende solo dalla politica) potrebbe restituire un po’ di attenzione. Ma c’è bisogno di qualcosa di più: una stagione di uomini che in politica si affrontano con lealtà, scontrandosi sulle idee e non su posizioni ideologiche; sarebbe il segno che i parlamentari sono tornati a lottare per il bene comune.

Le capita, nella sua pratica quotidiana, di avere a che fare con giovani che hanno perduto ogni speranza?
Sinceramente no. Ciò che i giovani mi hanno sempre insegnato è che si può sempre ricominciare. Magari saranno ingenui o sognatori, ma mi ha sempre colpito la loro forza di vita, la creatività che esprimono nei momenti più faticosi. I momenti di scoraggiamento esistono anche per loro, ma sinceramente non li ho mai visti fagocitati dal pessimismo: la giovinezza è il luogo dove con più facilità si riaccende la speranza.

Quanto è importante la cura della parola per risollevare situazioni apparentemente irrisolvibili?
Un uomo vale tanto quanto la sua parola: i giovani lo sanno bene. Penso che le parole banali possano (paradossalmente) incantare gli adulti più sprovveduti. Ma i giovani no. Per concedere entusiasmo e adesione è necessario offrire loro parole forti, vere, belle. Quando ho incontrato situazioni difficili, sono riuscito a trovare spiragli di comunicazione solo attraverso parole dirette, sincere. Quando un giovane è in difficoltà, non vuole sentirsi fare una predica: ha bisogno di qualcuno che gli parli guardandolo negli occhi, perché è dallo sguardo di chi parla che valuta la verità delle cose e decide se ne vale la pena.

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