di Francesco Mattana
Don Michele Falabretti, responsabile dal 2012 del Servizio nazionale per la Pastorale Giovanile della CEI, è l’interlocutore ideale per imbastire una riflessione approfondita sul rapporto tra i giovani e la Chiesa anche alla luce dei dati del Rapporto Giovani. Ordinato sacerdote nel 1993, per undici anni è stato vicario parrocchiale di Osio Sotto, comune della provincia di Bergamo. Chiamato nel 2004 a dirigere l’Ufficio Pastorale dell’Età Evolutiva della diocesi di Bergamo (UPEE), nel 2010 è diventato anche coordinatore regionale di Odielle (Oratori Diocesi Lombarde).
Spieghiamo, in parole semplici, qual è la funzione della Pastorale Giovanile nell’Italia del 2015.
La pastorale giovanile in Italia è una pratica ecclesiale che dura da secoli. L’Ottocento, con i cosiddetti “santi della carità” o “santi sociali”, ha espresso in maniera emblematica questa attenzione che è tipica del nostro Paese. Attenzione che durante il Novecento è andata via via crescendo e strutturandosi, fino a diventare un “luogo” riconosciuto nelle strutture diocesane e negli studi teologici. Insomma: la pastorale giovanile è stata anzitutto un insieme di azioni, poi è diventata un’istituzione soprattutto a partire dal 1993, anno di fondazione del Servizio nazionale per la pastorale giovanile presso la Segreteria generale della CEI. Oggi nella sua versione istituzionale (diocesana o nazionale) ha il compito di sostenere e coordinare le azioni del territorio. Nella sua espressione presso il territorio, ha soprattutto il compito di non lasciar che il percorso dell’iniziazione cristiana si chiuda con la celebrazione della Cresima. Per questo offre percorsi educativi alle giovani generazioni , che aiutino a far maturare il seme di vita cristiana nel cuore di ragazzi ancora molto giovani. Dunque lo sguardo della pastorale giovanile va sui preadolescenti, sugli adolescenti e sui giovani nei loro processi di crescita e maturazione.
Tra le pagine del “Rapporto” promosso dall’Istituto Toniolo, emerge il quadro di una gioventù che fatica a pianificare il proprio futuro, e che preferisce ritrarsi su un presente dalle fondamenta non solide. Sulla base del confronto quotidiano che lei ha coi giovani, ritiene che questi dati rispondano al vero?
Credo di sì, ma l’espressione suona già come una sorta di “accusa” nei confronti dei giovani. Come si fa a pianificare il proprio futuro quando non è dato sapere se si potrà avere un lavoro, comprarsi una casa e dunque immaginarsi legati a una persona o a una famiglia? Anche il dopoguerra in Italia fu un periodo difficile, ma c’erano adulti disposti a spendersi per i propri figli e a far loro posto. Dobbiamo aiutare i giovani a non piangersi addosso e a tornare a sognare una vita bella. Ma come adulti abbiamo il dovere di compiere qualche sforzo in più perché non solo il presente sia più stabile ma anche possibile, e la prospettiva sul domani sia per loro una strada percorribile.
Quali sono i punti di riferimento principali dei giovani con cui lei ha a che fare? Se hanno bisogno di consigli, a chi si rivolgono in prima istanza?
Le statistiche dicono la mamma; e questo sostiene la vecchia tesi del giovane italiano che fatica a tagliare il cordone ombelicale. Però a me sembra che oggi i giovani abbiano molte possibilità di incrociare altre presenze in grado di aiutarli e sostenerli. Una cosa sicura è che si rivolgono a chi sa offrire loro verità, non nelle parole ma nello stile di vita. Forse rincorreranno ancora qualche idolo, però non ne rimangono prigionieri: hanno antenne sofisticate e sanno decriptare anche i segnali più nascosti. Sincerità e coerenza sono le prime condizioni che cercano in un interlocutore.
Come vivono i giovani la fede cattolica? Condivide l’impressione, corroborata dagli studi in materia, che siamo in presenza di una religiosità più “liquida” rispetto al passato?
Sicuramente i giovani oggi sono meno “regolari” nella pratica religiosa. Ma è solo una religiosità diversa. Per certi versi più consapevole: nessuno di loro è “portato” dentro il corso di una pratica vissuta soprattutto dagli altri; quindi chi vive esperienze religiose lo fa con convinzione. Il rischio vero è una religiosità che – poco per volta – viene ritagliata sulla misura dei propri criteri: una religione da supermercato, un fai-da-te del sacro che rischia di tenerli lontani dalla fede come adesione della persona al Vangelo.
Qual è, a suo avviso, la strategia migliore per convincere i Neet – categoria di giovani che non studiano né lavorano – a riprendere in mano la propria vita?
I giovani vogliono tenere in mano la propria vita direi per definizione: ne hanno tutta la carica e lo slancio, ne hanno la forza interiore che li proietta dentro l’esistenza, i sogni nascono con facilità dentro di loro. Credo che chi – giovane – non vuole né studiare né lavorare sia finito in queste situazioni attraversando delusioni e fallimenti. Direi che un primo passo è cercare di capire cosa è successo: ognuno avrà una sua storia da raccontare. E poi due strategie. Dare loro buone motivazioni e giusti stipendi, è una strada. Non mantenerli a oltranza inducendoli a starsene a casa senza fare niente, è l’altra.
Dai dati emerge l’ammirazione dei giovani per Papa Francesco. Quello che colpisce, purtroppo negativamente, è uno stacco enorme tra la fiducia che nutrono verso il Santo Padre e la fiducia verso le altre figure religiose, compresi i parroci. Come si spiega questo gap? In che modo lo si potrà ricucire?
A me pare che questo dato, sicuramente fastidioso per i preti, sia un monito ben preciso. Vorrei vedere i giovani che hanno incontrato un prete dedito alle loro esistenze e sentire cosa dicono. La mancanza di fiducia si spiega solo ammettendo, con molta sincerità, che la dedizione per i giovani non può essere la passione di pochi preti che (come si dice talvolta) “ci sono portati”. La passione educativa sta dentro il ministero che ciascuno di noi ha accettato, quando ha promesso di prendersi cura del popolo di Dio. Il gap dice con chiarezza che mentre il mondo ha preso altre strade, noi preti abbiamo fatto molta fatica a rendercene conto. Pensando di poter conservare quasi naturalmente quella possibilità di essere punti di riferimento: in territori, però, dove la gente passava quasi tutta la vita all’ombra del campanile. Un mondo che si muove è un mondo che trova altri riferimenti: ricucire un rapporto di fiducia passa semplicemente dal tornare ad avere un rapporto con la gente, i suoi problemi, le sue gioie. Senza che questo venga considerato un lavoro di bassa manovalanza…
“Televisione cattiva maestra”, diceva il filosofo Popper. Anche il web, senza dubbio, è un terreno insidioso per i milioni di ragazzi che lo affollano. Le capita di dare consigli ai giovani su come utilizzare al meglio le infinite risorse della rete?
Io non credo che i due meccanismi siano simili. Quando Popper si espresse così, la televisione aveva (con radio e giornali) il monopolio dell’informazione. Il meccanismo del web è diverso. Io sono un bambino degli anni ’70 e ricordo ancora la televisione in bianco e nero con due canali: la crescita è avvenuta un po’ alla volta. Oggi il web appare già come una jungla in cui è difficile districarsi e (a parte qualche video o post virali – che sono o divertenti o strappalacrime) è difficile trovare qualcosa che davvero ti inchiodi nella navigazione e ti rapisca, ti faccia riflettere. Io credo che i giovani siano sempre connessi, che attraverso la rete creino un mondo di relazioni. Ma dubito che tutto questo possa veramente scavare a fondo la loro coscienza. Sicuramente li influenza nei loro processi di crescita, qualche volta li impressiona e li scandalizza. Ma credo che i nativi digitali abbiano più risorse delle generazioni che li hanno preceduti nella capacità di abitare il web. Cosa dovrei dire ai giovani: non guardate in internet le cose brutte? Lo sanno già. Preferisco far girare (condividere, per l’esattezza) ciò che si presenta come bello. Questo stimola tutti a non essere banali, anche solo quando si fanno girare sui social i propri auguri di Natale.
Le sarà capitato senz’altro di confrontarsi con loro anche su temi politici. Come vedono le istituzioni? Prevale un certo disincanto verso il Parlamento?
Quando ero un bambino, pronunciare la parola “politica” significava avere a che fare con qualcosa di pericoloso: se eri un giovane, ancora di più. Oggi tutto questo è scomparso: un giovane in politica è una mosca bianca (se – raramente – ce la fa) oppure è un disadattato, magari mangiato da un sistema che lo usa per dire a tutti “siamo giovani”. Le istituzioni politiche hanno fatto molto per deludere il Paese e ci sono riuscite bene. Forse una ripresa economica (che però non dipende solo dalla politica) potrebbe restituire un po’ di attenzione. Ma c’è bisogno di qualcosa di più: una stagione di uomini che in politica si affrontano con lealtà, scontrandosi sulle idee e non su posizioni ideologiche; sarebbe il segno che i parlamentari sono tornati a lottare per il bene comune.
Le capita, nella sua pratica quotidiana, di avere a che fare con giovani che hanno perduto ogni speranza?
Sinceramente no. Ciò che i giovani mi hanno sempre insegnato è che si può sempre ricominciare. Magari saranno ingenui o sognatori, ma mi ha sempre colpito la loro forza di vita, la creatività che esprimono nei momenti più faticosi. I momenti di scoraggiamento esistono anche per loro, ma sinceramente non li ho mai visti fagocitati dal pessimismo: la giovinezza è il luogo dove con più facilità si riaccende la speranza.
Quanto è importante la cura della parola per risollevare situazioni apparentemente irrisolvibili?
Un uomo vale tanto quanto la sua parola: i giovani lo sanno bene. Penso che le parole banali possano (paradossalmente) incantare gli adulti più sprovveduti. Ma i giovani no. Per concedere entusiasmo e adesione è necessario offrire loro parole forti, vere, belle. Quando ho incontrato situazioni difficili, sono riuscito a trovare spiragli di comunicazione solo attraverso parole dirette, sincere. Quando un giovane è in difficoltà, non vuole sentirsi fare una predica: ha bisogno di qualcuno che gli parli guardandolo negli occhi, perché è dallo sguardo di chi parla che valuta la verità delle cose e decide se ne vale la pena.