di Alessandro Rosina
“Ridaremo un futuro ai giovani” ha affermato il premier Enrico Letta. La stessa frase era stata usata da Michel Martone, quando era viceministro al lavoro del Governo Monti e in modo del tutto analogo (insistendo sul “diritto al futuro” dei giovani) si era espressa Giorgia Meloni in qualità di Ministro della Gioventù nell’ultimo Governo Berlusconi.
Le promesse e i fatti
Insomma, dai politici non sono mancate le promesse di miglioramento della condizione delle nuove generazioni. A mancare continuano però ad essere i fatti, a giudicare dalla persistente difficoltà dei giovani sia nel trovare e creare lavoro, che, conseguentemente, nell’avviare un proprio progetto di vita autonoma.
Mentre nel resto d’Europa a lavorare è la gran parte di chi ha tra i 18 e i 29 anni, da noi è solo una minoranza a farlo: il tasso di occupazione era il 48% nel 2005 ed è sceso nel 2012 sotto il 40%. Anche il tasso maschile si è inabissato sotto la soglia del 50% e si trova attualmente vicino al 45% (al 33% quello femminile). Oltre 10 punti sotto la media europea.
Si accentua quindi ulteriormente il paradosso di un’Italia che non solo ha meno giovani rispetto agli altri paesi avanzati, ma li rende anche meno attivi e partecipativi nella società e nel mercato del lavoro (di conseguenza più passivamente dipendenti economicamente dai genitori).
Non si vince con i giovani solo in difesa
Ma per capire come questa condizione stia incidendo sulla vita dei giovani non bastano gli usuali indicatori sui livelli di disoccupazione, è cruciale avere un quadro più ampio e ricco sulle loro caratteristiche, su come percepiscono la situazione in cui si trovano e sulle strategie adottate per farvi fronte. Un’esigenza conoscitiva a cui tenta di dar risposta l’indagine “Rapporto giovani” (www.rapportogiovani.it) promossa dall’Istituto Toniolo in collaborazione con la Fondazione Cariplo. La rilevazione, realizzata tecnicamente dall’Ipsos, è formata da un campione rappresentativo a livello nazionale di 9000 persone tra i 18 e i 29 anni. E’ inoltre impostata in modo da seguire un panel di intervistati per un periodo di cinque anni.
I dati della prima wave del 2012 mostrano come la crisi non abbia (per ora) intaccato il desiderio di poter fare in prospettiva un lavoro pienamente appagante e nel quale autorealizzarsi (a cui mira oltre il 90% dei giovani), li ha però resi concreti nel presente e disponibili a confrontarsi con quello che attualmente il mercato offre. Tutt’altro che bamboccioni e schizzinosi: oltre l’80% svolge un lavoro che non considera pienamente soddisfacente. Più nello specifico, un giovane su due si accontenta di un salario sensibilmente più basso rispetto a quello che considera adeguato. Inoltre, una quota molto alta, pari al 47% si adatta a svolgere un’attività che considera non del tutto coerente con il proprio percorso di studi.
Fanno bene i giovani a migliorare lo spirito di adattamento al poco (e spesso male) che viene a loro offerto, ma non è certo costringendo le nuove generazioni a dare di meno rispetto a quanto potrebbero e a rivedere al ribasso le proprie aspirazioni di realizzazione professionale e di vita che l’Italia può tornare a crescere ed essere competitiva.
Forse la politica finora ha fallito anche perché ha sbagliato impostazione: non si tratta di “restituire un futuro” di un qualche tipo ai giovani, ma di mettere nel presente le nuove generazioni nelle condizioni di costruirselo da sole il futuro: il proprio e quello dell’intero paese. L’alternativa, sempre più presa in considerazione, è un futuro altrove.