Credenti, ma aperti al dialogo, meno attaccati dei loro padri alla tradizione. Il ritratto dei giovani lombardi figli di migranti cristiani e di altre religioni nella ricerca dell’Osservatorio Giovani “Di generazione in generazione”.
Che cosa rappresenta la fede per i figli dei migranti? Come la vivono nel nuovo contesto? Qual è il rapporto con la tradizione ereditata dai loro padri? La ricerca, edita da Vita e Pensiero e realizzata dall’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo di Milano con la collaborazione di Fondazione Migrantes e degli Uffici Migranti delle dieci diocesi lombarde, risponde a queste domande intervistando giovani di età compresa tra i 18 e i 29 anni, residenti in Lombardia, che si professano cristiani cattolici, ortodossi, evangelici, e che appartengono ad altre religioni: buddisti, induisti, musulmani e sikh.
«Non è vero che il mondo sta cambiando perché arrivano i migranti, ma piuttosto è vero il contrario: il mondo è cambiato ed è per questa ragione che giungono da noi persone da altre parti del mondo. Con il sinodo “Chiesa dalle genti”, che si concluderà il prossimo 3 novembre, la Diocesi di Milano si è messa davanti allo specchio e ha preso atto di questa realtà: per noi cattolici è più importante il battesimo della nazionalità scritta sul passaporto. La Chiesa ambrosiana deve imparare a parlare a fedeli che hanno incontrato la nostra stessa fede in altre parti del mondo e che ora sono tra noi, cominciando proprio dai giovani».
Lo ha detto don Alberto Vitali, responsabile dell’Ufficio per la Pastorale dei Migranti della Diocesi di Milano, durante la presentazione ,in Arcivescovado a Milano, del volume “Di generazione in generazione. La trasmissione della fede nelle famiglie con background migratorio” (ed. Vita e pensiero) ricordando che tra le persone di origine straniera presenti nella Diocesi il 57% è di religione cristiana e tra questi il 33% è di confessione cattolica.
«La Chiesa ha bisogno di crescere nella sua capacità di ascoltare la realtà che vive. Molte Diocesi in Italia si stanno dotando di strumenti di ascolto; quella milanese, forse anticipando i tempi ha avviato un processo ecclesiale per passare dall’ascolto al cambiamento delle pratiche», ha sottolineato riferendosi proprio al sinodo Chiesa dalla genti, padre Giacomo Costa, direttore responsabile di Aggiornamenti Sociali, segretario speciale del Sinodo dei Vescovi “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale” cui l’indagine condotta nelle diocesi lombarde trae ispirazione.
«I giovani che vengono da altri paesi ci chiedono di immaginare con creatività il volto della Chiesa di domani. Dobbiamo farlo insieme a loro senza paura», ha insistito mons. Franco Agnesi, vicario generale dell’Arcidiocesi di Milano e delegato per la Pastorale dei Migranti nella Conferenza episcopale lombarda.
Venendo ai contenuti dell’indagine, il professor Fabio Introini, ricercatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore – Osservatorio Giovani Istituto Toniolo ha messo in evidenza che «Oltre ad essere “nativi cosmopoliti”, i giovani di oggi sono orientati a un forte pragmatismo, cioè alla voglia di fare, di costruire, di impegnarsi. Trovare il linguaggio adatto per parlare ai giovani significa sempre più spesso, lasciare la parola all’azione. Dalla ricerca emerge che tutti i leader intervistati hanno riconosciuto, seppur con gradazioni diverse, una certa “protestantizzazione” della fede giovanile, vissuta tendenzialmente in modo più privato che pubblico. E anche presso i giovani che sembrano più lontani dal linguaggio di una fede “formalmente” riconoscibile come tale, la fede è presente come domanda di senso e tensione spirituale. Se la fede si privatizza, anche l’attenzione delle comunità e dei suoi leader deve essere individualizzata. Secondo gli intervistati, la comunità religiosa deve essere aperta alle altre, capace di costruire un tessuto di relazioni interetniche».
Il volume “Di generazione in generazione. La trasmissione della fede nelle famiglie con background migratorio (ed. Vita e Pensiero) raccoglie i risultati dell’indagine realizzata dall’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo di Milano con la collaborazione di Fondazione Migrantes e degli Uffici Migranti delle dieci diocesi lombarde.
L’indagine qualitativa è stata svolta intervistando 149 persone residenti in Lombardia di fede cattolica, ortodossa, evangelica, buddista, induista, musulmana e sikh. In particolare, sono stati intervistati in profondità giovani di età compresa tra i 18 e 29 anni, i loro genitori e i principali leader delle comunità religiose di appartenenza.
Secondo i ricercatori per gli adulti intervistati, l’esperienza migratoria non solo non ha fatto perdere loro la fede, ma ha addirittura aumentato l’attaccamento ad essa, rinforzandola. Anche per questo motivo i migranti di prima generazione considerano importante riuscire a trasmetterla ai propri figli. Questi ultimi, pur rispettando le peculiarità dei propri genitori, hanno, invece, iniziato a interiorizzare alcune caratteristiche che il rapporto con la fede assume presso i giovani italiani. Come questi, tendono infatti a privilegiare una fede che non si accompagna necessariamente a una forte appartenenza o a un legame con le istituzioni che la rendono esperienza collettiva e ne guidano la pratica.
Tanto per i cristiani delle differenti confessioni quanto per appartenenti alle altre religioni la famiglia riveste un ruolo decisivo nella trasmissione delle proprie tradizioni e degli elementi portanti della propria religione. Inoltre, rispetto e fede sono i valori riconosciuti dalla maggioranza come più importanti: ciascuno è libero di coltivare la propria fede, di credere nella propria religione, ma il rispetto di se stessi e degli altri è fondamentale.
Per i giovani cattolici e ortodossi, un po’ meno per gli evangelici, la pratica religiosa è sentita come una pesante e arrugginita armatura, da indossare controvoglia, in un contesto socio-culturale sempre più secolarizzato.
Per i musulmani, i sikh e in misura decisamente minore per i buddisti, la fatica di raccogliere il testimone sta nel dovere fare consapevolmente la scelta di praticare una fede cui tutto il contesto è tendenzialmente ostile (musulmani) o che impone regole e precetti che rendono così marcatamente diversi, da doversi continuamente spiegare (sikh).
Le giovani generazioni, per lo più nate e cresciute in Italia sono contaminate dall’incontro con la cultura del Paese ospitante, che produce un effetto di ibridazione, ma soprattutto una sorta di ammorbidimento di alcuni elementi.
Il valore del rispetto reciproco è importante per tutti gli intervistati. Per fare un esempio, appurato che la religione è una parte importante nella vita dei giovani musulmani, si registrano episodi interessanti, proprio riguardo al tema del “rispetto”. Se nella compagnia di amici, c’è una persona musulmana, che ha necessità in alcuni momenti della giornata di fermarsi e pregare, gli altri lo sanno, lo accettano, lo rispettano e ciò avviene con molta naturalezza. Se il sabato sera il gruppo delle amiche esce e va in discoteca, la musulmana resta a casa, le altre lo sanno e lo accettano. Questo significa che le culture/le religioni quando hanno la possibilità di incontrarsi e conoscersi possono acquisire elementi utili per stare assieme, mantenendo le proprie differenze intrinseche.
Per i giovani intervistati, appartenenti a tutti i gruppi religiosi oggetto dell’indagine, essere a contatto con modi diversi di vivere la fede è visto come un arricchimento, qualcosa che, rimanendo nel proprio Paese di origine, non si sarebbe altrimenti potuto avere.
Il pluralismo, in questa visione, esalta la libertà di scelta, rende consapevoli delle basi del proprio credo, consente di metterle in discussione e le sottopone a costruttiva critica. Ci si può, come emerge dal racconto di alcuni giovani, costruire una fede personale che supera l’educazione standard e diventa un’esperienza vissuta ad un livello più alto di approfondimento. Conoscere altre religioni, inoltre, consente di trovare “i luoghi del dialogo”, i punti in comune piuttosto che le differenze inconciliabili.