Aveva ragione senz’altro quel tale quando diceva che “sia gli ottimisti che i pessimisti contribuiscono alla società: i primi inventano l’aereo, i secondi il paracadute”.
La sua visione, forse, peccava però di eccesso d’ottimismo: al giorno d’oggi si respira un tale clima di disincanto tra una larga fetta di persone che l’impressione, così a occhio, è che in tanti – in troppi – non prendano nemmeno in considerazione il paracadute.
L’ultimo Eurobarometro, l’analysis sector della Commissione Europea che analizza l’opinione pubblica, ha indagato le opinioni dei giovani europei sui temi della partecipazione e dell’occupazione: i dati emersi sono poco confortanti. In Italia, in particolare, l’84% degli intervistati si dichiara molto sfiduciato riguardo all’ipotesi di poter trovare un lavoro stabile. Una cifra enorme e da non sottovalutare affatto, che trova sostanziale conferma nelle pagine del “Rapporto Giovani 2014”.
L’indagine del Rapporto, realizzata dall’Istituto Toniolo in collaborazione con l’Università Cattolica e con il sostegno di Fondazione Cariplo e Intesa San Paolo, ha preso in esame 1.727 individui di età compresa tra i 19 e i 31 anni. Alla domanda se l’Italia offra opportunità di lavoro a chi si affaccia all’età adulta, l’88% ha risposto no. Interrogati sui motivi di questa disillusione, la maggior parte la attribuisce alle contingenze economiche particolarmente negative.
Per molti, l’assenza di opportunità è da ricondurre alla presenza di raccomandazioni, alla scarsa meritocrazia e alla difficoltà di essere assunti se non si ha esperienza. Il problema delle entrature nel nostro Paese non è nuovo, ma la crisi ha ulteriormente aggravato le criticità preesistenti: il capitalismo di relazione rende più impegnativo l’accesso alla “cittadella del lavoro”, ed è normale che in questo quadro la “fuga” all’estero venga vissuta come unico strumento di autorealizzazione. Di certo il problema dei giovani di oggi non è la formazione o la scarsa adattabilità, e difatti nell’indagine del Rapporto questi elementi non vengono praticamente nominati.
Preoccupanti i criteri individuati dagli intervistati per raggiungere il successo professionale: il saper essere, secondo la loro opinione, prevale sul sapere e sul saper fare. Il titolo di studio, in particolare, viene considerato sempre più come un orpello, una coccarda da appuntarsi per motivi squisitamente esteriori e non di sostanza.
L’impressione, però, è che troppi ragazzi stiano accettando, tutto considerato senza battere ciglio, situazioni a dire il vero inaccettabili. Non che ci stiano prendendo gusto alla flessibilità negli orari richiesta da alcuni datori di lavoro, ma tendono – perlomeno da quanto emerge dall’indagine del Rapporto – a considerarlo come un dato naturale, da assorbire senza troppe lamentele se vogliono tenersi a galla nei marosi della contemporaneità.
Il vignettista Altan, in questi casi, saprebbe come riassumere con sintesi icastica le insidie che si celano dietro la parola “flessibilità”. Ammesso che, con l’apatia che si respira tra larghi strati della popolazione giovanile, sia rimasta almeno la voglia di sorridere per le arguzie del disegnatore.
Francesco Mattana