di Antonio Sciotto

L’Espresso.it

 

La vita degli stagisti è veramente grama, ancor di più in tempi di crisi. Sono molte le imprese, e gli uffici pubblici, che per risparmiare si assicurano giovani colti, spesso laureati, e soprattutto dotati di volontà e voglia di fare, visto il miraggio di una assunzione: e che in questo modo riescono a evitare dipendenti a tempo indeterminato, o anche soltanto stagionali, collaboratori e partite Iva che comunque costano parecchio di più.

Tra l’altro forse pochi ancora lo sanno, ma lo stage non è più riservato soltanto ai giovani: causa forse anche l’emergenza della recessione, la normativa ha esteso questa possibilità a tutte le età, includendo disoccupati, cassintegrati e lavoratori in mobilità. Nuove opportunità o ulteriori illusioni? C’è da essere molto cauti: non è affatto detto, infatti, che alla fine del tirocinio si venga assunti.
Secondo l’ultimo studio di Excelsior/Unioncamere (del 2012) soltanto il 10,6 per cento dei tirocinanti entra a far parte dell’organico aziendale. Per tutti gli altri, quando va bene, una pacca sulle spalle e un «arrivederci e grazie, forse ci rivedremo».

Sempre secondo la stessa inchiesta, sono circa 307 mila gli stage attivati ogni anno in Italia, ma soltanto nelle imprese: per gli uffici pubblici non c’è un dato certo, e si può citare la stima della ‘Repubblica degli stagisti‘, sito di riferimento della categoria, che ipotizza tra i 150 mila e i 200 mila tirocini attivati. Nota dolente sopra tutte: la retribuzione. Non esiste ancora una legge che la imponga, e così nella gran parte dei casi il lavoro è del tutto gratuito, o coperto da piccoli forfait che si aggirano sui 300-400 euro mensili, fino a 600 nei casi più fortunati.

 

Certo c’è un abisso tra il caso raccontato proprio alla ‘Repubblica degli Stagisti’ da un gruppo di ragazzi assoldati presso una nota casa editrice romana che produce enciclopedie – lavoro sodo, senza alcuna vera formazione, per zero euro al mese – e l’offerta attivata dall’Agenzia europea del farmaco di Londra che sullo stesso sito promuove addirittura stage a 1.600 euro al mese, paga superiore a quella di tanti operai e impiegati italiani. Ma quest’ultima sembra essere davvero una eccezione.

Il racconto di Marta, laureata in lettere con 110 e lode e presa a lavorare per tre mesi nella casa editrice, sembra purtroppo rispecchiare molto di più lo sconfortante panorama italiano. Innanzitutto, appunto, zero retribuzione. E poi, il tipico specchietto per le allodole, la possibile assunzione a fine percorso: «Mi venne spiegato – racconta la ragazza – che la casa editrice aveva firmato un contratto ‘epocale’ con la Microsoft, per realizzare testi scolastici e supporti multimediali. Un lavoro lungo almeno due anni, con l’eventualità di un futuro contratto a progetto».

Di formazione, però, neanche l’ombra: «Andavo alla sede soltanto per ritirare il materiale, poi facevo tutto a casa, da sola – dice Marta – E quando non mi facevo sentire, mi arrivavano mail minatorie dalla responsabile: ‘Ti rinnovo la domanda: continuiamo o ci salutiamo?’». Scadenze, obiettivi e risultati che non dovrebbero far parte di uno stage. Infine, a compito ultimato, ben 300 pagine lavorate, la doccia fredda: nessuna assunzione. E il paradosso è che quello stesso anno la casa editrice ha impiegato tra i 15 e i 20 stagisti a fronte di 12 dipendenti stabili. Un chiaro caso di lavoro gratuito ‘usa e getta’.
Proprio per chiedere ordine in un settore che ancora oggi è un far west, il sindacato si mobilita: per la giornata del 29 maggio la Cgil ha organizzato una serie di manifestazioni e incontri con le Regioni – le istituzioni deputate a normare gli stage – che mirano a rivendicare regole e rispetto.

«Siamo nell’assoluta incertezza normativa, e per questo di fatto le imprese e gli uffici pubblici si regolano a modo proprio, scivolando molto spesso nell’abuso», spiega Ilaria Lani, responsabile Politiche giovanili della Cgil.
«Per il momento l’unica legge nazionale sul tema è il pacchetto Treu del 1997, ma la riforma del titolo V della Costituzione, diverse sentenze e infine un pronunciamento della Corte costituzionale hanno stabilito che devono essere le Regioni a legiferare. Così un accordo Stato-Regioni del gennaio scorso stabilisce che entro questo luglio si dispongano leggi e regolamenti, ma per il momento si sono mosse soltanto Piemonte e Veneto».